il Consiglio UE ha approvato il nuovo regolamento per i rimpatri via hub in Paesi terzi. È una svolta. Ma le associazioni immigrazioniste non ci stanno
Missione rimpatrio. Su questo punta principalmente l’Unione Europea nella sua politica sui migranti. E lo fa con un documento che dovrà ancora passare al vaglio del parlamento europeo, ma che intanto prevede la possibilità di hub in Paesi terzi finalizzati proprio al rimpatrio. Un’idea che richiama, spiega Mauro Indelicato, giornalista di InsideOver, il progetto inglese per portare i richiedenti asilo in Rwanda e in qualche misura anche la soluzione italiana realizzata finora in Albania, che in realtà aspetta ancora di essere definita in alcuni suoi punti.
La UE stavolta ha cercato di sottolineare che comunque vanno rispettati i diritti umani dei migranti, anche se questo probabilmente non eviterà alla nuova norma di essere impugnata in Corte europea: le associazione che si occupano dei migranti lo hanno già fatto capire.
La UE dà il via agli hub in Paesi terzi dove prendere decisioni sui richiedenti asilo. Da dove nasce questa scelta?
Di per sé non è una novità. Da tempo l’Unione Europea, più che sul contrasto all’ingresso illegale di migranti, punta sulla necessità di rimpatriare chi è già arrivato: secondo gli stessi dati dell’UE, soltanto il 20% dei rimpatri in media viene portato a termine, quindi c’è un 80% di persone raggiunte dall’ordine di rimpatrio che alla fine rimane in Europa. Il piano in sé mette per iscritto un’intenzione già palesata nei mesi scorsi: organizzare hub in Paesi terzi che però abbiamo sottoscritto degli accordi con l’UE per garantire il rispetto anche dei diritti di chi deve essere rimpatriato. Poi c’è un’altra novità importante.
Quale?
Se un soggetto viene raggiunto da un ordine di rimpatrio in un determinato Paese, l’ordine vale per tutti i Paesi dell’UE: fino a oggi valeva solo per il Paese che lo emetteva. Se un migrante viene raggiunto in Italia da un ordine di rimpatrio e viene rintracciato in Spagna o in Francia, si può dare esecuzione all’ordine anche in questi due Paesi.
Questa nuova proposta della UE rivaluta anche l’idea italiana di realizzare centri per i richiedenti asilo?
Più che l’idea italiana richiama quella inglese dell’ex premier Rishi Sunak, che prevedeva di portare i richiedenti asilo in Rwanda, con delle differenze importanti: viene messo l’accento sulla necessità di rispettare i diritti umani dei migranti, per ridurre il rischio che la norma non passi a livello giudiziario. È una proposta più raffinata rispetto a quella britannica in modo da venire incontro alle richieste delle associazioni umanitarie, che però, a giudicare dalle prime reazioni, appaiono fortemente contrariate. Ma non è finita qui.
Cosa c’è d’altro?
Se il Paese al quale il migrante è destinato per il rimpatrio non collabora, perché non permette l’atterraggio dell’aereo che lo trasporta, non manda le autorità a prelevare il proprio cittadino o interrompe le procedure a livello burocratico rallentandole apposta, contro di esso ci saranno ripercussioni economiche. Qualcosa di simile è avvenuto in parte tra Francia e Algeria in questi mesi, con Parigi che continua ad accusare Algeri di riprendere troppo pochi migranti rispetto al numero di rimpatriati.
Ma in questa versione della proposta il pericolo di una opposizione giudiziaria alla decisione della UE è scongiurato? Dobbiamo aspettarci altre battaglie legali?
Sì e le vedremo su scala europea. Assisteremo ad altri duelli politico-giudiziari, con le associazioni che si occupano di migranti che cercheranno di ribadire la necessità di garantire i diritti dei singoli rispetto ai rimpatri. Punteranno sicuramente sui rischi che correrebbe un rimpatriato nel proprio Paese di origine. Il punto è ancora la questione dei Paesi sicuri. L’UE, però, potrebbe rivendicare il fatto che se un migrante è destinatario di un ordine di rimpatrio è perché non è stato accertato un pericolo. Sulle valutazioni e sulle interpretazioni della nozione di pericolo per il singolo rimpatriato si giocherà la partita politico-giudiziaria.
Il centro italiano realizzato in Albania come viene utilizzato ora? Con questa nuova norma europea potrebbe cambiare di nuovo destinazione e diventare un hub per i rimpatri?
Dopo le sentenze che ci sono state nei mesi scorsi e dopo quando è stato accertato in sede giudiziaria, anche europea, per il momento è un centro come tanti altri in Italia, un CPR (Centro di permanenza rimpatri). C’è l’intenzione da parte dell’UE di questo nuovo regolamento, ma bisognerà vedere quali requisiti verranno chiesti ai futuri centri e con quali Paesi terzi si istituiranno accordi. Si tratta di intese che farà non il singolo Paese ma l’Unione Europea. Il documento di cui parliamo è ufficiale, non è una bozza, ma è presto per dire se il centro in Albania rientrerà in questo gioco, anche perché c’è un passaggio fondamentale in parlamento europeo, dove le maggioranze sono sempre molto variabili. Sarà comunque anche una partita giudiziaria con ricorsi alla Corte europea.
Quali Stati potrebbero sostenere questa iniziativa?
Paesi come la Germania o la Francia, che da tempo si battono per aumentare i rimpatri, penso che si esprimeranno in maniera positiva. I tedeschi sia con Scholz che con Merz hanno fatto molti sforzi per aumentare i rimpatri già con la legislazione nazionale vigente. La stessa cosa va per i francesi. Credo che anche l’Italia sia di questo parere: una buona parte dei governi si esprimeranno in maniera positiva.
(Paolo Rossetti)
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