Il segretario federale della Lega Nord, Roberto Maroni, si sta giocando una bella partita per le elezioni alla presidenza della Regione Lombardia. È consapevole che la posta in gioco per lui e per il Carroccio è davvero molto elevata. Con la sua azione, da qualche settimana in qua, sta onorando sino in fondo un principio fondamentale: in politica, per vincere bisogna rischiare, occorre «osare l’inosabile». E tra tutti i candidati – veri o presunti tali – è l’unico che non tergiversa né tentenna. Maroni tira dritto.
Questo dato di fatto è certificato anche dal rapporto che sta intrecciando con il Pdl. Il quasi «ex» partito di Berlusconi è da tempo in caduta libera, lo dicono tutti i sondaggi. Nel breve volgere di un paio d’anni, ha perso circa due terzi del proprio elettorato. È dunque in una condizione di drammatica debolezza rispetto alla corazzata che vinse le elezioni del 2008, eroso dalle tensioni interne. Lo stesso balletto sulle primarie lo conferma. Così come lo confermano le prospettive di scissioni, rifondazioni e fuoriuscite, magari dello stesso fondatore. Lo conferma pure – per quanto attiene alla realtà lombarda – lo sfilacciato rapporto con Albertini. Ex sindaco di Milano del Pdl e attuale eurodeputato del Pdl, Albertini sostiene di essere espressione di un «progetto civico», nel quale crede fortemente; un progetto estraneo ai partiti e, soprattutto, al suo partito. E tuttavia, se il Pdl non lo appoggia nella corsa al Pirellone, Albertini minaccia di stracciare la tessera numero 216. Per quale ragione non si sa, visto che la sua candidatura è espressione della società civile, come ha più volte ribadito con orgogliosa fierezza. La minaccia è incoerente, del tutto priva di senso.
Maroni sa che, in Lombardia, il suo rapporto con il Pdl è un rapporto di forza. Nel senso che, sempre stando ai sondaggi, la Lega Nord «pesa» quasi il doppio rispetto a un Pdl boccheggiante. Sulla base dei numeri, il Segretario federale del Carroccio ha ragione a pretendere che sia il Pdl – eventualmente – a trattare con la Lega e non viceversa. Questo al di là dell’effettiva influenza del segretario Alfano – sonoramente sconfitto alle recenti elezioni siciliane – e del potere che sul partito esercita ancora Berlusconi. Considerazioni che intervengono solo in un secondo momento.
Con la sua azione, Maroni ha arginato la crisi giudiziaria di primavera della Lega. E ha conferito rinnovato slancio al partito, limitando l’emorragia di consensi. Ma anche rielaborando il posizionamento e il progetto politico del Carroccio, nel nuovo dialogo con i ceti produttivi per rimettere al centro dell’attenzione la Questione settentrionale declinata nella prospettiva dell’euroregione del Nord.
La Questione settentrionale è un problema politico oggi più vivo che mai in passato, poiché la crisi esaspera e rivela il suo doppio volto negativo. Da un lato, infatti, il sistematico drenaggio delle risorse del Nord non ha mai generato lo sviluppo del Sud assistito; dall’altro ha comunque limitato in modo davvero significativo la capacità produttiva – e dunque il Pil – del Nord che, vessato dalla fiscalità, ha potuto contare su minori risorse da reinvestire nel sistema d’impresa e sul territorio.
Maroni intende fare della Lega il partito di raccolta, cioè un vero e proprio sindacato territoriale, che rappresenta e tutela gli interessi organizzati del grande Nord. Questo è il suo obiettivo, peraltro annunciato in più occasioni. E ogni mossa è finalizzata alla sua realizzazione. A Maroni interessa dunque il territorio; interessa il Nord. E da qui intende ripartire. A Bologna, un paio di settimane fa, ha annunciato il ritiro imminente della delegazione parlamentare. Questo annuncio deve essere letto sulla base di tali considerazioni: il ripiegamento sul territorio per ripartire da qui e conferire forza e concretezza a un progetto politico assai ambizioso. Un progetto politico peraltro illustrato nel suo libro Il mio Nord, uscito in questi giorni e – occorre dirlo – sottovalutato dagli analisti e dai commentatori. Ma non dai lettori.
Al segretario federale del Carroccio Roma non interessa più. È vero che ha più volte ribadito, in questi giorni, di non poter essere alleato in Lombardia con un partito come il Pdl che in Parlamento è schierato su posizioni radicalmente opposte rispetto alla Lega, perché sostiene il governo Monti e il Carroccio no, è all’opposizione. Ma le ragioni più profonde e più vere del disimpegno devono essere individuate nella volontà di arroccarsi nel fortino elettorale e ripartire dal Nord – recuperando l’antica fisionomia ideologica della Lega, che nacque proprio nel nome della Questione settentrionale – più che nella logica delle alleanze nell’ambito del centrodestra. Oltretutto, nella prospettiva – da più parti auspicata – di un Monti bis, la ritirata della Lega da Roma avrebbe il significato di una forte delegittimazione del già boccheggiante sistema politico italiano in quanto il Carroccio è l’unico partito schierato sin dall’inizio all’opposione del governo dei professori. E un governo senza opposizione parlamentare rappresenterebbe il dramma di una democrazia malata.
La stessa merce di scambio che gli viene proposta dall’ex premier Silvio Berlusconi – ti sosteniamo in Lombardia ma tu e la Lega sosterrete il Pdl alle elezioni politiche – non fa presa. Lo scambio di voti a Maroni – che comunque è disponibile e pronto alle primarie di coalizione per le elezioni in Lombardia – importa solo fino a un certo punto. Perché ha capito che questi balletti da prima Repubblica non intercettano più gli orientamenti dell’elettorato. Anzi, sono molto dannosi. Così come sarebbe stato dannoso, all’indomani della crisi politica in Regione Lombardia, far cadere – da parte del Pdl – Piemonte e Veneto come vendetta consumata ancora a caldo. L’elettorato non ne vuol più sapere di questi giochi e giochetti, tatticismi che hanno fatto il loro tempo e non rappresentano più una tecnica efficace e vincente nella gestione del potere. La gente è stufa di tutto ciò. Soprattutto di fronte a una grave crisi come quella che sta attraversando il Paese. Crisi che è economica, ma anche politica.
Le recenti elezioni siciliane hanno dimostrato che il grillismo pesca voti nell’elettorato – deluso – dei partiti tradizionali più che nell’area del non-voto. Altrimenti le astensioni non sarebbero state così elevate. Ciò dimostra che c’è una larga fetta dell’elettorato che si richiama al legittimo diritto all’astensione per manifestare il proprio dissenso e la propria opposizione al sistema dei partiti, ma non si fida delle demagogiche ricette di un comico e dei suoi improvvisati seguaci. La politica è una cosa troppo seria per essere affidata a un comico. Questo elettorato chiede un progetto politico concreto, convincente e credibile. E Maroni cerca di offrirglielo, consapevole che proprio in quest’area c’è uno spazio politico di consenso assai più ampio rispetto ad altri ambiti in cui andare a intercettare i voti.