Lunedì Meloni sarà in Egitto, dove sarà firmato l’accordo per la tregua su Gaza. Già si parla di possibili truppe italiane di peacekeeping
Costruire una pace è molto più difficile che firmarla, soprattutto quando alla base ci sono divisioni, odi, eccidi che durano da decenni.
Ben venga quindi la firma lunedì di un accordo alla presenza di una parte dei “grandi” del mondo, ma sarebbe sbagliato pensare che le cose in futuro si aggiusteranno da sé, anche perché si può sicuramente ritenere che i principali firmatari (Hamas ed Israele) continueranno a coltivare nel loro animo profonde riserve sul “nemico”, con il rischio di riprendere le ostilità al primo pretesto.
Per questo va festeggiato l’accordo, ma senza troppe illusioni, e ben sapendo che la pace è come un alberello piantato nella sabbia: cresce solo se ogni giorno è alimentato e protetto, altrimenti si secca.
Per esempio fondamentale sarà il ruolo dei “garanti”, ovvero di chi controllerà il processo di pace. E non è un caso che già si parli di una forza armata di intermediazione tra le parti. Un compito rischioso, impegnativo e soprattutto di lungo periodo.
È ovvio che il nostro governo ci tenga ad essere della partita, a farsi in qualche modo coinvolgere, a dimostrare di essere uno degli attori principali sul campo e in questo senso si parla già dell’invio a Gaza di un reparto dei carabinieri del “Tuscania” con compiti di controllo, addestramento della polizia palestinese e reciproca garanzia.
Nulla di nuovo: i carabinieri sono già da molti anni a Gerico, le nostre forze armate IFIL sono di stanza nel sud del Libano ed hanno ormai lunghe tradizioni internazionali di peacekeeping in mezzo mondo, ma a Gaza sarà molto diverso (e più pericoloso).
Innanzitutto perché si tratta di un territorio piccolissimo, con diversi gruppi armati a stretto contatto tra loro, vis-à-vis a guardarsi in cagnesco.
Massima prudenza, quindi, e regole d’ingaggio estremamente chiare, perché se qualcuno spara il primo colpo si rischia di ricominciare peggio di prima.
Un altro problema è che se l’esercito israeliano è un’armata pianificata, centralizzata e con una chiara linea di comando. Dall’altra parte ci sono gruppi da tempo in guerra tra loro, uniti nell’odio verso Israele, ma che, se potessero sterminarsi a vicenda, ne sarebbero fieri.
Lo stesso Hamas non è un movimento compatto: ad Azzedin al Haddad, capo delle brigate al Qassam, si oppongono i leader fuggiti in mezzo mondo e nuovi gruppi giovani ed intransigenti per i quali gli unici israeliani buoni sono e restano quelli morti. Un accordo tra queste diverse anime è tattico verso l’esterno, ma alla lunga è difficile diventi strategico.
Ma poi, soprattutto, a Gaza ci sono i clan locali, odiati da Hamas. Per esempio nelle ultime ore prima della tregua Hamas avrebbe attaccato pesantemente i rivali della comunità di Al Majaida, nell’area di Khan Younis. Un’incursione respinta dai droni israeliani che con il gruppo hanno di fatto costituito un’alleanza.
È una nuova milizia guidata da Hossam al Astal, un ex membro della sicurezza dell’ANP che ha controllato la distribuzione degli aiuti umanitari in parte della Striscia (si può immaginare con quali ritorni economici e quali criteri) assumendo grande potere ai danni proprio di Hamas.
Non è finita, perché un altro attore della partita è Mohammed Dalhan, per anni uomo chiave a Gaza con il suo clan, poi trasferitosi ad Abu Dhabi ed interlocutore sia degli Emirati che dell’Egitto e che aspira a riprendersi il potere.
In questa delicatissima situazione arriverà – si presume – un contingente di pace internazionale (non si sa ancora da chi promosso, forse dall’Onu) che dovrà appunto operare ad impedire gli scontri, dipendendo dall’esterno per tutto, rifornimenti e logistica compresa, per un compito quindi di grande difficoltà.
Bene quindi ad una presenza italiana, ma consci che non la si può organizzare in poche ore solo per il gusto di arrivare per primi, e che dovrà essere in qualche modo garantita alle spalle.
Questo anche perché gli accordi lasciano aperti ancora troppi fronti: dalla Cisgiordania, dove Israele si auto-annette territori contro ogni diritto internazionale, al futuro dello Stato palestinese, che – sia pur se riconosciuto da molti Paesi nelle ultime settimane – è una entità teorica, rifiutata da Israele, malvisto da molti stessi Stati arabi.
Lunedì verrà fatto quindi un primo passo importante, ma solo il primo di un incerto cammino.
(marco.zacchera@libero.it)
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