Dicono: “Il calcio unisce il mondo”; e la prima reazione a questo cliché è sostenere il contrario, cioè che il calcio causa forti contrasti e profonde divisioni, meglio visibili quando ci si porti per così dire in area laterale, considerando alcune delle forme che l’interesse calcistico ha assunto in un Paese fino a oggi piuttosto refrattario come gli Stati Uniti.
Prima della partita Francia-Marocco il più aggressivo dei giornaloni statunitensi (il Washington Post detto Wapo) scriveva: “Nei media sociali abbondano i messaggi sul Marocco che rivive le antiche conquiste islamiche intorno all’ottavo secolo, quando si attraversavano i Pirenei dopo avere abbattuto entrambe le nazioni della penisola iberica”. Questo modo di soffiare sul fuoco è sempre incauto, tanto più quando il giornalista entusiasta si dimentica di menzionare che cosa accadde quando le truppe musulmane traversarono i Pirenei: cioè la loro decisiva sconfitta a Poitiers nel 732 a opera dell’esercito franco-germanico guidato da Carlo Martello. Ma per fortuna, dopo la vittoria della Francia sul Marocco, pare che nessuno sia stato così demagogico e anacronistico da evocare la battaglia di Poitiers!
In realtà, la scena europea è tutt’altro che epica, nel calcio come in altri aspetti sociali. Metti una sera a Liegi, dopo le vittorie del Marocco ma prima della fatale partita con la Francia, quando un gruppetto di viaggiatori provenienti da un altro Paese europeo e di passaggio in quella suggestiva ma un po’ sonnolenta cittadina già immersa nell’oscurità precoce della sera, sostava un po’ stupito a guardare due insoliti assembramenti (in quelle piazze semideserte): a un’estremità, un gruppo di uomini e donne di tutte le età (compresi vari bambini) in buona parte avvolti in mantelline rosse, dal quale si elevavano a tratti slogan indecifrabili, punteggiati da raffiche di petardi; e all’altra estremità, una fila di poliziotti anch’essi con aria tranquilla e all’ombra discreta di una tettoia di supermercato.
E poi, arrivati nella piazzetta accanto, i viaggiatori (che avevano finalmente capito) si ritrovavano accanto al gruppo dei mantelli rossi, che rincasava tirandosi dietro i bambini semiaddormentati; e tutti insieme attraversavano la quieta insignificanza (né araba né cristiana) di uno di quei mercatini di Natale che una volta erano tipici nel Nord Europa e che adesso il non-spirito del Natale ha ridotto a un’ombra di sé stessi. Insomma, una celebrazione modesta, casalinga: ecco la realtà di quella che si può chiamare la cauta coesistenza europea, dove le comunità diverse scorrono l’una accanto all’altra come acqua e olio.
Ma Wapo non demorde, e cerca a tutti i costi lo scontro epico. Dopo l’accondiscendenza (mascherata da epica storica) verso il Sud dell’Europa, ecco l’accondiscendenza mascherata da geopolitica verso il Sud America; e avverte, con il tono di chi auspica la rissa: “Una sconfitta dell’Argentina da parte della Francia, il campione regnante, potrebbe essere difficile da digerire”.
Dietro a tutto ciò c’è quel diffuso sentimento di lieve antipatia verso la Francia (quel ressentiment – la parola francese che Nietzsche ha fatto entrare nella grande filosofia tedesca), che è molto diffuso negli Stati Uniti; dove l’intellighenzia progressista, sempre in caccia di pregiudizi da stanare e da svergognare, non disdegna tuttavia di ammiccare a certi suoi propri ressentiments, che pare abbiano superato l’esame del politicamente corretto: verso i cattolici, verso gli italiani americani (ne sentiremo delle belle, durante la campagna elettorale del 2024) e (paradosso) verso i laicissimi francesi. Ma uno dei punti di forza di questi ultimi verso i popolarissimi argentini nell’incombente partita potrebbe essere proprio quel certo ressentiment da cui i “blu” si sentono circondati, e che a volte ha l’effetto – altro paradosso – di funzionare come una scarica di energia.
Allora, il calcio non unisce il mondo? Allora non è vero che che il calcio possieda, forse più di ogni altro sport, “la capacità di offrire momenti di trascendenza” (altra frase ricorrente negli articoli di giornale)? Ma no, no: non è così semplice. C’è una trascendenza autentica, e c’è quella che lo è soltanto in apparenza. Quest’ultima è la speculazione geopolitica, che confonde le partite di calcio con i partiti presi. Mentre la vera trascendenza è quella che accade solo a momenti, i momenti dell’individuo nella dialettica con il suo piccolo gruppo, la squadra; come nella parole che re Enrico V rivolge nell’omonimo dramma di Shakespeare al suo piccolo esercito: “Noi pochi, pochi e felici, noi banda di fratelli!”
La trascendenza è quello che accade dopo i lunghissimi minuti della scorribanda, il cui culmine è quello che lo spagnolo chiama perfettamente il golazo: il goal fatto di brutto e insieme in bellezza, il goal fatto con le buone o con le cattive, il goal che sfida le leggi della fisica. Questa, molto concretamente, è la trascendenza del calcio.
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