Enrico Camanni in "Le Alpi in 30 montagne" propone un viaggio d'autore nella storia e nelle valli di 30 montagne dell'arco alpino

Siamo affezionati da sempre a Enrico Camanni, scrittore fecondo e facondo di montagne, montanari, alpinisti, creatore di cultura alpina nel senso più lato del termine. E per molti anni alla guida della Rivista della Montagna e di Alp, nei bei tempi ahimè remoti in cui nel mercato editoriale italiano c’era spazio per vari e pregevoli periodici di montagna, oggi quasi tutti spariti.



Ora ha pubblicato Le Alpi in 30 montagne (Laterza, 2025), una scelta di 30 vette fondamentali dal punto di vista storico e, perché no, estetico, dalle Alpi Marittime alle Giulie. Di ogni grande cima e delle valli sottostanti ci racconta tante storie, non tanto e non solo alpinistiche, ma soprattutto storie di genti, di montanari che quelle montagne e vallate le hanno percorse, abitate, vissute per secoli, anzi millenni.



C’è la storia, per certi versi misteriosa e strana, di come nell’800 gli abitanti della Val di Zoldo abbandonarono l’estrazione del ferro dalle miniere ormai esaurite tra il Pelmo e la Civetta e si re-inventarono, chissà come e perché, emigranti gelatai: portarono e diffusero la moda dei gelati prima nella pianura veneta, poi in mezza Europa e in America.

La parete nordovest della Civetta (foto da Wikipedia)

C’è quella dell’alpino friulano Silvio Ortis, pluridecorato nella guerra di Libia poi combattente sui monti di casa, in Carnia, nella Prima guerra mondiale, dove insieme ad altri tre compagni fu condannato dalla corte marziale e assurdamente fucilato per essersi rifiutato di condurre un attacco chiaramente suicida contro le postazioni austriache. “L’esecuzione dovette essere ripetuta due volte – racconta Camanni – perché una parte del plotone sparò a vuoto”.



Più a ovest: l’anno è il 1854, quando il giovane seminarista bavarese Stephan Steinberger in una deposizione giurata a un doganiere del Passo dello Stelvio disse di aver conquistato, da solo e brancolando nel buio di una momentanea cecità da riverbero, il Gran Zebrù, allora e oggi la cima più difficile della zona. Nessuno gli credette, nemmeno quando pubblicò il suo racconto su un serio giornale cattolico. La prima ascensione ufficiale fu dieci anni dopo, da parte dei soliti alpinisti inglesi con guide svizzere, mentre il seminarista sparì dalle cronache, “diventò sacerdote e si dedicò ad altre missioni”.

Le missioni oggi per salvare le montagne sono ancora altre, di fronte a pericoli che sembrano inevitabili come il riscaldamento climatico, che sbriciola le rocce non più compattate dal gelo e fa scomparire i ghiacciai. O l’overtourism, quell’enorme serpente umano, motorizzato e incolto che soffoca le cime in una stretta mortifera. Le Tre Cime di Lavaredo ne sono l’esempio più eclatante.

Camanni però è tutto sommato ottimista. “Non ho alcuna certezza del domani – conclude – ma sono sicuro che la montagna vivrà grazie allo scambio e alla circolarità delle idee. Oppure i boschi se la riprenderanno”.

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