Sembra ci sia dimenticati del fatto che Mediobanca, oggi passata sotto controllo di Mps, era nata di fatto statale
Mentre Mps sta assumendo il controllo di Mediobanca provvedendola di un nuovo management, non cessa qualche recriminazione sul ruolo del Mef – ancora azionista di minoranza a Siena – nell’offerta pubblica appena conclusa.
La polemica è corsa a pelo d’acqua lungo tutti i dieci mesi dell’assalto di Siena a piazzetta Cuccia. Ha dovuto misurarsi fin dapprincipio con l’onda di neo-statalismo finanziario che sta rapidamente investendo tutto l’Occidente. Se negli Usa l’Amministrazione federale diventerà azionista-pivot di Nvidia, nell’Ue entrambe le iniziative strategiche avviate da UniCredit sul mercato sono state bloccate dai governi di Germania e Italia (da Roma almeno sulla base di golden power di legge).
Nell’operazione condotta da Siena è stato d’altronde visibile una sorta di contrappasso. L’offerta pubblica – ostile – sul mercato non è mai stata un’arma privilegiata nell’arsenale di Mediobanca. L’istituto italiano è stato esponente tradizionale di quel capitalismo europeo – “renano” – che nell’ultimo trentennio ha dovuto incassare un’indubbia sconfitta strategica dall’ascesa del globalismo finanziario di stampo anglosassone.
Mediobanca stessa si è ritrovata infine ad associare il suo brand alla “madre di tutte le Opa”: quella del 1999 su Telecom. Ma è accaduto solo in quell’occasione, poco prima che scomparisse il fondatore e principalmente per assecondare un Governo nazionale (D’Alema) che stava nel frattempo offrendo a Mediobanca una protezione preziosa.
Quest’ultima era bersaglio non secondario delle offerte pubbliche di scambio lanciate da UniCredit e San Paolo Torino su Comit e Banca di Roma, cioè sulle azioniste-chiave dell’allora via Filodrammatici. Le Ops – sgradite anche alla Banca d’Italia – fallirono entrambe: a differenza di quella della “razza padana” su Telecom (alla quale partecipò in posizione defilata anche Mps).
Allo scadere del secolo scorso, le tre “banche di interesse nazionale” (Comit, Credit e Bancoroma) erano state da poco destatalizzate: dopo essere state controllate dall’Iri addirittura fin dagli anni 30. E dopo essere state – in quanto tali – le fondatrici di Mediobanca nel 1946.
Le tre Bin erano state definite tali dalla legge bancaria del 1936: il suggello ri-regolatorio a una grave crisi finanziaria internazionale che aveva travolto anche i tre gruppi creditizi. Questi ultimi erano stati al centro di un maxi-salvataggio pubblico in nulla diverso da quello che ha interessato Mps ottant’anni dopo. Mediobanca nasce quindi a valle della statalizzazione di tre grandi banche nazionali ed è a sua volta, all’origine, a controllo statale integrale, per quanto indiretto.
Protagonisti-fondatori sono Raffaele Mattioli – Ceo della Comit salvata dall’Iri, creatura del regime mussoliniano – ed Enrico Cuccia: giovane funzionario statale, prima all’Iri stesso e poi distaccato per un periodo all’amministrazione coloniale in Etiopia.
A metà degli anni 80 del secolo scorso, a quarant’anni anni dalla nascita, le tre Bin detengono ancora il 56% dell’Istituto, nel frattempo quotato in Borsa. I soci privati – chiamati da Cuccia, divenuto rapidamente “dominus” incontrastato – partecipano con quote di minoranza quasi simbolica (fra queste spicca quella della banca d’affari francese Lazard, con cui via Filodrammatici ha intanto già conquistato un ruolo di riferimento nelle Generali).
Solo nel 1988 – su pressione del Presidente dell’Iri Romano Prodi – Cuccia è obbligato a richiamare investitori privati che modifichino l’assetto singolare di una investment bank di proprietà dello Stato, ma gestita in totale autonomia dal suo Ceo.
Il “centauro Mediobanca” (copyright dello stesso Cuccia) diventa così una joint venture al 25% a testa fra il polo-Bin e il “salotto buono” degli industriali nazionali: Agnelli, De Benedetti, Pirelli e Ligresti in testa (e con tutti i gruppi l’istituto struttura una fitta rete di partecipazioni incrociate).
L’assetto resiste per l’intero decennio delle grandi privatizzazioni, quando l’istituto tenta invano di “catturare” a monte le sue tre Bin azioniste. Ma il gioco delle Ipo orchestrate dal Governo Prodi (con Mario Draghi al Tesoro) e poi quello delle grandi fusioni bancarie ha la meglio. Banca di Roma e UniCredit finiscono sotto il controllo di nuove Fondazioni bancarie per poi fondersi: la loro quota aggregata sarà dimezzata e infine sparirà del tutto. La Comit viene salvata da Intesa Sanpaolo, ma la sua partecipazione – in un estremo impeto di autonomia – viene richiamata dalla stessa Mediobanca e redistribuita fra i suoi soci privati.
All’inizio del secolo corrente – ormai sessantenne – la banca ereditata da Vincenzo Maranghi e poi da Renato Pagliaro e Alberto Nagel si ritrova davvero privatizzata: ma anche priva della protezione sostanziale garantita da quello Stato che aveva offerto a Mediobanca anche una fondamentale sponda strategica (a metà anni 90 l’Antitrust registra che l’istituto gestisce ancora due terzi del mercato italiano della finanza d’impresa).
Oggi Mediobanca è stata scalata con successo da Mps, salvata dallo Stato e poi quasi interamente riprivatizzata con l’intervento decisivo di due grandi nomi dell’odierno capitalismo finanziario-industriale nazionale: Francesco Gaetano Caltagirone e Delfin (gli eredi di Leonardo Del Vecchio). Entrambi sono da anni investitori rilevanti e di lungo periodo nella stessa Mediobanca oltreché nelle Generali.
Chi si affanna a lamentare sfregi dello Stato al mercato mostra di non conoscere la storia di Mediobanca o, peggio, di volerla manipolare. Sono 79 anni che finalmente gli storici potranno indagare: e non è affatto improbabile che i loro giudizi saranno complessivamente positivi per la banca e per il suo fondatore. Cui nessuno ha mai disconosciuto enorme statura professionale e inattaccabile integrità personale, fra Stato e mercato.
Da oggi alla prova – anzitutto del mercato – sono i nuovi proprietari di Mediobanca attraverso Mps (per ora anche il Mef) e i nuovi manager.
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