La meritoria iniziativa dell’ex La Crus, Mauro Ermanno Giovanardi nel portare nell’hinterland milanese per il secondo anno consecutivo questo bel festival dedicato alla canzone d’autore ha confermato anche in questo sua nuova edizione quella particolare diramazione del “Venerdì di Venere” dedicato alla musica italiana femminile.
Partita un po’ in sordina lo scorso anno per la presenza di personaggi che creavano una sorta di discontinuità in ragione del loro estemporaneo accostamento al mondo della musica d’autore, quest’anno ha proposto una ricca e stimolante locandina per la presenza di cinque tra le più alte espressioni della musica italiana degli ultimi vent’anni a partire dalla carismatica capostipite alla più giovane – ancora in erba – rivelatasi quest’anno tra talent show e Sanremo.
Andato in scena nella bella cornice del Parco Villa Fiorita di Brugherio dove il cielo ha trattenuto per tutta la serata e sino a notte fonda qualsiasi tentazione di tumulto atmosferico aprendosi anzi a fugaci comparse stellate, con la DJ Ketty Passa in veste di conduttrice e intervistatrice, il festival ha fatto mostra di come cinque e vivaci espressioni artistiche collocate nella stessa serata a breve distanza, siano in grado di rivelare d’impatto tutte le loro differenze di personalità e carattere nel proporsi, donarsi o interagire con la platea.
Susanna Parigi sinfonica, autorevole e amabile, rappresenta il trait d’union con la tradizione, la canzone d’autore implicata con certa forbita scrittura pop femminile anni ’70 (Mia Martini in primis), immediatamente imparentata con il patrimonio musicale classico di formazione accademica e pur tuttavia originalmente affrancato da qualsiasi tentazione di comodo schematismo di matrice scolastica. Accompagnata – oltre che dal suo pianoforte – dal solo chitarrista Matteo Giudici, la musicista fiorentina propone quattro brani da “la Lingua Segreta delle Donne” ultimo splendido album, dalla danza gioiosa di “Liquida” alla schizzata “Crudo” passando per l’ammiccante “Ma Tu Dormi” e il vertice drammatico della superba piece francese “Petite Madone” (dedicata in maniera diretta e mediata all’iraniana Sakineh), ripresenta poi dal precedente lavoro (“L’Insulto delle Parole”) forse i due brani che singolarmente presi rappresentano il vertice creativo di una carriera, “L’Attenzione” e “Fa Niente” giocate tra espressività fiabesco-medioevale ed echi pastosi di melodramma innestato su una raffigurazione da opera buffa, chiudendo con la sua bella e personale rivisitazione della deandreiana “Disamistade”.
Patrizia Laquidara straripante, incantatrice e sorniona, è la personificazione del talento vocale e musicale più poliedrico e smisurato che la scena italiana abbia prodotto nell’ultima decade, esemplare nel condurre la tradizione del folk d’autore mediterraneo impregnato di antichi preziosismi vocali verso lidi sudamericani e lusitani con virate di ritorno verso certo rock sperimentale anglosassone e, più di recente, verso vivaci e sfavillanti arie retrò (l’inedita “La Cicala” non proposta in questo festival).
A margine della partenza del tour dedicato specificamente all’ultimo straordinario album “Il Canto dell’Anguana” – musica popolare dalle più svariate latitudini autoctone e non, su testi di esemplare pregnanza del poeta Enio Sartori – ha riproposto un compendio ragionato del bellissimo show antologico “Cento Sottane” che ha portato nell’ultimo anno in giro tra diversi continenti e Italia. In trio con l’eccellente pianista, arrangiatore e produttore Alfonso Santimone, il bassista Davide Garattoni e un percussionista aggiunto, vengono così ripassate in rassegna fra le altre l’indugio burlesco di “Drume Negrita”, cover di una filastrocca cubana e una versione di “Personaggio” spogliata di quasi tutte le sue originali infrastrutture armoniche per essere sospesa prevalentemente su un ostinato tappeto percussivo controbilanciato dai superbi intermezzi pianistici di Santimone che inseguono deliri di Gershwin, sudamerica ed Ellington.
Lo stupendo affresco mediterraneo “Le Rose” – privato del recente e più serrato arrangiamento batteristico – è riportato alla misurata dimensione evocativa dell’incisione originale e regala il picco esecutivo dell’esibizione insieme alla meravigliosa versione piano/voce de “L’Equilibrio è Un Miracolo” (dal secondo album “Funambola”). Una versione più ironica e spuria di “Mielato” lascia spazio all’inedita stramba e ammaliante piece “Pesci Muti”, composizione giostrata tra suadenti e spiritose vocalità marine che richiamano atmosfere disneyane (la Dory di “Alla Ricerca di Nemo”) e deviazioni armoniche stralunate che echeggiano i Van Der Graaf Generator.
Straripante Patrizia è proprio il caso di dirlo perché la nostra – a quanto pare – va oltre il tempo concesso e provoca l’irruzione della conduttrice della serata in una sorta di divertita e umoristica rivolta. Ciò non impedisce che la nostra riesca a bissare con l’unico estratto dall’ultimo album, la vertiginosa e perentoria taranta “L’Anema se Desfa”. Nathalie tormentata, melodica e sanguigna, con la sua laziale popolanità e una dolce inflessione borgatara, sembra incarnare una riedizione al femminile – musicale e discorsiva – di Lucio Battisti.
In trio con Francesco Tosoni alla chitarra elettrica e Stefano Cabrera al violoncello, esordisce con “Tojours” un breve omaggio alla canzone francese unendola con “Manteau Noir” il suggestivo brano scritto da lei proprio in francese che chiude l’unico album finora pubblicato. Un buon concerto che oscilla tra alcune fasi di alti e bassi. Tra questi ultimi la nostra denuncia una sostanziale area di derivatività al momento involuta dal cantautorato americano femminile anni ’90 (su tutte Tori Amos) che in certi momenti sussurra molto piacevole (“Cuore Calmo” e “Sogno Freddo”) ed in altri piuttosto stagnante e compilativo (“Lungo Le Sponde del Fiume”).
Tra i momenti migliori “Searching” un bel brano seminedito (incluso quale traccia bonus dell’album su i-tunes) dove Nathalie – qui alla chitarra acustica – declina di venature rock un bel largo melodico di sapore irlandese. La punta di diamante del concerto è rappresentata tuttavia dai primi due famosi singoli che hanno rivelato l’artista romana, “In Punta di Piedi” e “Vivo Sospesa” dove è evidente l’impronta elegante degli arrangiamenti di Lucio Fabbri per quanto la limpidezza della resa appaia un po’soffocata dal tappeto un po’pesante di un’invadente chitarra elettrica.
Su tutte svetta peraltro “Nello Specchio”, ispirata miscela musicale di scuola battistiana con un lento incipit pianistico a mo’ di preludio e un’appassionata fase melodica ascendente che sfocia in un inciso giocato sulla bellissima variazione graffiata della voce che suona come una stilettata.
Cristina Donà poetica, materna e intrattenitrice, ha il dono di conquistare la platea con irresistibili smorfie, sorrisi e battute anche quando chiede al tecnico più volume alla chitarra acustica spiegando che ha dovuto sostituire d’urgenza la sua personale fatta cadere in albergo la sera prima.
Davvero sorprendente nel suo essere a un tempo musicista di gran spessore e vivida intuitiva e nel contempo innata umorista che sembra renderla una filiazione naturale di quella geniale verve comica dei grandi del varietà italiano.
In quartetto con il polistrumentista/arrangiatore Saverio Lanza e la sezione fiati dei fratelli Cangi, apre da sola alla chitarra acustica con una bella “Goccia” per snocciolare poi quattro brani dall’ultimo bellissimo album “Torno a Casa a Piedi”, intervallati da una eterea e incantata “Universo”. Scorrono i tre brani più significativi del disco l’intensa “Un Esercito di Alberi”, l’ironica e struggente nostalgia della smagliante danza a ritmo di banda “In Un Soffio” e il fremente gospel “Più Forte del Fuoco” (chiuso da una citazione di “Don’t Worry Be Happy).
A terminare il suo set (più breve di altre che l’hanno preceduta) la danza stavolta spensierata di “Miracoli” dove, da consumata affabulatrice, fa capolino un euforico riferimento sociale alla situazione politica milanese attuale. A parte questo ancora più interessante e sorprendente è il complessivo approccio mentale positivo rivelato nella breve intervista a fine esibizione dove la nostra ha puntualizzato che alla base di parte importante della sua scrittura (come evidente dagli ascolti di “In Un Soffio” e “Più Forte del Fuoco”) c’è la necessità vitale che al fondo di ogni grande dolore ci sia un riscatto, una risalita e una utilità umana.
Paola Turci teatrale, carismatica e disinvolta, con il grande bagaglio di esperienza che può vantare, è artista che ha acquisito negli anni uno spessore tale da poter essere identificata come esempio unico di cantante italiana in grado di spaziare tra differenti declinazioni di rock anglosassone, di folk di estrazione americana a e di musica italiana d’autore. Dotata di una densità espressiva sulle tonalità medie che la rende adatta ad interpretare canzoni della più disparata natura, è giunta negli anni ad offrire una resa live dei propri brani tale da creare un senso di naturale continuità tra vertici creativi della carriera ed episodi minori. Con l’ausilio di Pierpaolo Ranieri al basso e Matteo Cusato a batteria e percussioni tra i primi vengono riproposti capolavori quali la palpitante e drammatica “Quasi Settembre” e una “Stato di Calma Apparente” dove la citazione bassistica del riff di “Message in a Bottle” è mediata dal dolce afflato armonico della chitarra acustica di Paola che ne preserva la sostanza originaria.
Nel set della durata di un’ora circa si riascoltano fra gli altri brani dal penultimo album (il primo della trilogia cosiddetta “tematica”) come l’avvolgente “Attraversami Il Cuore” e l’appassionata cover di Modugno “Dio Come Ti Amo” resa in un’avvincente figurazione di milonga. Persino un episodio tutto sommato minore della discografia come “Mani Giunte” risente positivamente della padronanza scenica e arrangiativa acquisita negli anni dalla nostra. E tra le riproposizioni delle spigliate e radiose “hit” “Saluto L’Inverno”, “Sabbia Bagnata” e la conclusiva “Bambini”, Paola ci fornisce in anteprima dall’imminente nuovo album (conclusivo della “trilogia”) una strepitosa versione di “Si Può” di Gaber che dilaga letteralmente tra la espressività teatrale della voce della protagonista e il contrasto armonico dell’accordo di basso in risposta al refrain “utopia”.
In conclusione un sincero apprezzamento al lavoro di Mauro Ermanno Giovanardi nell’aver allestito un cast di straordinari talenti della musica italiana al femminile come quello presentato nel Venerdì di questo festival estivo, che rappresenta nel contempo una sfida per le prossime edizioni dove non sarà cosa di poco conto riuscire a replicare questa straordinaria combinazione.
(Alessandro Berni)