12 elementi, 49 minuti, 109,9MB. Questa – conosciuta ai più – è la dicitura che caratterizza un album nella barra inferiore del player di iTunes. Nella fattispecie le quantità sono riferite all’ultimo album degli U2, Songs of innocence. 12 elementi (dicasi anche canzoni), 49 minuti, quasi 110 megabyte intorno a cui da qualche giorno si sta scatenando il putiferio.
Il web è invaso da pareri contrastanti, tutti stanno parlando di questo lavoro, forse senza nemmeno averlo ascoltato a fondo. Sì, perché è di musica che si tratta, più precisamente di canzoni, e le canzoni vanno affrontate, ascoltate a fondo e poi giudicate. Almeno io faccio così.
Questa volta non è facile. Qui sul Sussidiario abbiamo almeno il vantaggio che della questione ma-sarà-giusto-che-mezzo-miliardo-di-persone-si-trovino-un-disco-non-voluto-in-regalo si è già occupata l’illustre penna di Paolo Vites. Forse io semplifico troppo, facendo finta di non vedere il giro di soldi che c’è dietro, ma a me basta la saggezza popolare: a caval donato non si guarda in bocca. Un regalo se piace si tiene (in questo caso si ascolta) oppure si getta senza scrupolo. Uscendo dalla saggezza popolare, fare un account iTunes rappresenta un patto con un fornitore di servizi, che all’interno della sua politica commerciale può decidere di regalare un album di una delle band più affermate del pianeta a mezzo miliardo di persone. Poi se ne può discutere.
Mi preme quindi passare alla musica. Scusate se mi ripeto, non è davvero facile. Più volte nella carriera della band irlandese interi stuoli di fan si sono stracciati le vesti di fronte ad uscite sorprendenti, di cui magari si è capita l’importanza un lustro o un decennio dopo. Ricordo la sorella di un caro amico piangere a dirotto ascoltando per le prime volte Achtung Baby, perché “quelli non erano più gli U2”. Ricordo me stesso estremamente perplesso davanti al lettore cd con dentro POP e pochi mesi dopo 10.000 ragazzi spagnoli ballare Discothèque mentre io la suonavo live con una band.
Non so (ancora) se questo è un caso simile. Quello che so dai primi ascolti è che la volontà della band è stata, pur mantenendo linguaggio e vocabolario rock, di gettarsi in una sintassi mainstream: insieme a Flood che da anni lavora con la band, altri produttori sono stati chiamati a dare un’impronta al lavoro, produttori appunto che hanno lavorato con Adele, Coldplay, Florence and the Machine e altri. La produzione globale è attribuita a Danger Mouse (Brian Joseph Burton, classe 1977), accreditato fra gli altri con Norah Jones, i Gorillaz e i Black Keys. Il suono è possente, cesellato nei suoi pieni e vuoti, e questo, occorre dirlo, è davvero accattivante. Se si ascolta a pieno volume, l’impatto e gli arrangiamenti – che ormai, si sa comprendono anche il sound – sono veramente notevoli.
Ma è sufficiente un bellissimo vestito per poter dire ad una donna che è bella? Fuor di metafora, le canzoni ci sono? Resisteranno al fuoco di fila di polemiche di questi giorni? A mio modesto parere questo album è più vicino alle origini (e non solo per il tentativo di andarci, sbandierato a più riprese da Bono e sicuramente presente nei testi) di altri lavori recenti. Intendo musicalmente. Il marchio di fabbrica U2 è presente e ben marcato.
Basti sentire l’intro di Every Breaking Wave, che forse più che With or Without You volutamente ricorda Every Breath You Take. O arrivando al potente ritornello della stessa canzone, le schitarrate di The Edge nella classica combinazione power chords distorti + riffone ad ottave. Nella seguente California la batteria e l’andatura in ottavi del basso sono completamente U2, anche se disorienta un po’ tutto quello che c’è intorno, dall’introduzione che cita i Beach Boys di Barbara Ann ai cori che – non sputatemi – richiamano prepotentemente Katy Perry, anche come contrasto con la drammaticità del testo.
La voce di Bono c’è tutta e regala più di un brivido in Iris (Hold Me Close), ennesima (la quinta) canzone dedicata alla madre, che musicalmente riporta alla mente Ultraviolet (Light My Way). Stringimi forte, Hold me close, appunto, è il grido del ritornello, uno schiaffo in faccia, la dichiarazione innocente, questa sì, di una mancanza. Di una ferita ancora aperta. Subito dopo, stessa tonalità, senza soluzione di continuità, attaccaVolcano, intro potente, ma che forse nel prosieguo della canzone tradisce un po’ le aspettative, facendo affiorare suoni e ambienti di Vertigo e dintorni. Facendo un passettino indietro citiamo anche Song for Someone, che passa dalle atmosfere acustiche delle strofe all’andatura U2 caratteristica del ritornello, incluso lo slogan da cantare insieme a squarciagola, per poi tornare a casa nel finale: And I’m a long way from where I was and where I need to be.
Insomma, già dal titolo si capiva, l’album vuole essere un ritorno a casa, attraverso canzoni di innocenza, o meglio canzoni che riportino la memoria e il sapore di quel tempo in cui la band muoveva i suoi primi passi. Le due dediche ai Ramones – nel primo brano The Miracle (of Joey Ramone) – e a Joe Strummer – nella strana e incisiva This is Where You Can Reach Me Now, che mi ha ricordato molto Staring at the Sun – sono indicative di questa volontà.
Una annotazione finale va spesa per lo scuro, forse un po’ sinistro ma intrigante brano conclusivo The Troubles,peraltro impreziosito dalla voce della ventottenne cantante svedese Lykke Li. Non so per certo se il titolo della canzone si riferisca al nome dato ai conflitti etno-nazionalisti continuati per trent’anni nell’Irlanda dal Nord, dalla fine degli anni sessanta al 1998, con strascichi anche successivi. È vero che di una bomba esplosa a Dublino Bono parla anche in uno scritto incluso nel booklet del cd, da leggere peraltro se si vuole capire l’intento e l’estetica di questo lavoro. Il testo per la verità sembra più intimo, e musicalmente la canzone si riannoda ad un’altra grande canzone conclusiva di album, come Love is Blindness fu per l’album Achtung Baby, ed anche alle atmosfere di un altro grande pezzo come If You Wear That Dress Tonight. Ecco questa secondo me è una canzone che resta, anche se finisce con un fade out piuttosto, anzi troppo sbrigativo. Chissà perché, non essendo possibile che fosse finito il nastro…
Tirando le somme di questo sproloquio, a me sembra un buon album, lo riascolterò ancora. Magari in macchina, per vedere se si associa a qualche panorama, a qualche scorcio, come sempre la musica fa, caratterizzando e a volte plasmando momenti di vita. Quello che è certo è che non è un album che si può ascoltare stando in superficie. Come nessun album del resto, ma questo forse di più. Oltretutto è pure gratis…
P.S. se gli U2 vi hanno sempre fatto schifo, non sarà questo album a farvi cambiare idea. Se siete fan della band e state buttando via il computer dopo il primo ascolto, magari dategli una chance in più.