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Home » Musica e concerti »  OPERA/ “Rigoletto” e le camicie nere

  • Musica e concerti

 OPERA/ “Rigoletto” e le camicie nere

Giuseppe Pennisi
Pubblicato 3 Dicembre 2018 - Aggiornato alle ore 16:17
Verdi

Il Rigoletto, foto di Yasuko Kageyama

<span class="s1">Molta attesa l’inaugurazione della stagione 2018-2019 al Teatro dell’Opera il 2 dicembre. Sala, palchi e gallerie stipate. In scena il Rigoletto di Verdi</span>

Molta attesa l’inaugurazione della stagione 2018-2019 al Teatro dell’Opera il 2 dicembre. Sala, palchi e gallerie stipate. In scena un titolo molto conosciuto: Rigoletto di Giuseppe Verdi, fortemente voluto – si dice – dal maestro concertatore e direttore d’orchestra Daniele Gatti, con un cast stellare  ed una regia ed allestimento scenico di Daniele Abbato che trasferisce l’ambientazione della vicenda dal Ducato di Mantova nel Rinascimento alla Repubblica Sociale Italiana (meglio conosciuta come Repubblica di Salò) nel 1944.


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Non è la prima volta che Rigoletto viene spostato d’epoca e di luogo. Pochi anni fa, sempre al Teatro dell’Opera della capitale, un allestimento affidato a Leo Muscato (scene di Federica Parolini, costumi di  Silvia Aymonino) portava l’azione in un triste anche se peccaminoso, principato mittleuropeo d’inizio Novecento. A New York, è in scena da anni al Metropolitan un Rigoletto in un Casinò gestito dalla mafia. In un allestimento a Firenze ( una co-produzione con il Real di Madrid, il Lyceum di Barcelona ed il Massimo di Palermo) il regista Graham Vick tracciava un parallelo tra il “gobbo” di Verdi ed il “nano” dell’opera Der Zwerg (il nano)  anche nota come  Der Geburstag der Infantin (“Il compleanno dell’Infanta”) di Alexander von Zemlisky.


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E’ un lavoro che, rappresentato  a Colonia nel 1922, vietato nella Germania nazista, ignorato nel resto del mondo, dovette attendere sino al 1980 quando, grazie all’Opera di Amburgo, venne consacrato come uno dei maggiori drammi in musica del secolo scorso ed è, da allora, nei cartelloni più importanti (si è visto a Roma ed a Firenze). Al pari del ‘nano’, Rigoletto è un reietto , con una anima, però, profondamente dolce.

Quindi, non c’è da stupirsi se Rigoletto è costretto a fare il buffone tra i gerarchi ed i miliziani in camicia nera della Repubblica di Salò. L’idea è buona ma non è stata , a mio avviso, realizzata: quando sono apparsi in palcoscenico, Daniele Abbato ed i suoi collaboratori (Gianni Carluccio per scene e luci, Francesca Livia Sartori  e Elisabetta Antico per i costumi e Simona Bucci per i movimenti coreografici) sono stati accolti da una bordata di fischi e boo dal pubblico in smoking ed abiti da sera della platea e dei palchi e da quello delle gallerie. A mio parere, il team creativo avrebbero dovuto osare di più prendendo alcuni spunti da Salò p le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, mostrando una lussuriosa e peccaminosa villa sul Garda come Palazzo del Duca/ gerarca, un borgo per l’abitazione del protagonista e così via. Invece, l’azione si dipana in una scena unica che assomiglia ad una piazza di una piccola città del Nord Italia (e si trasforma in vari ambienti) e la festa orgiastica è poco più di un ballo in una balera provinciale del Veneto o della Lombardia. Non mancano idee buone come il praticabile su tre piani del secondo quadro del primo atto – egregio strumento per facilitare le voci.


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Andiamo alla parte musicale. Nella trilogia popolare di Verdi, Rigoletto è l’opera di transizione verso quelli che saranno i canoni del melodramma italiano della seconda metà dell’Ottocento. Supera i “numeri chiusi” con declamati, ariosi e concertati (il terzo atto non è divisibile in “numeri”); ha un flusso orchestrale continuo al cangiare delle atmosfere (specialmente nel secondo quadro del primo atto); e, soprattutto, ha personaggi con psicologie scavate a fondo, al cui confronto Manrico, Leonora ed il Conte di Luna de Il Trovatore di un anno e mezzo più tardi sono manichini che vivono solamente grazie solo alla vocalità. Ha anche richiami a forme precedenti, come le tre ‘ballate’ (Questa o quella, La domma è mobile, Bella figlia dell’amore) affidate al Duca , il quale ha un’unica aria (Ella mi fu rapita). Il soprano ha un’impervia aria di coloratura (Caro nome) che ricorda quasi Bellini.

Il protagonista è – come si accennato – il grande reietto del melodramma verdiano; sfigurato nel corpo, con un’anima sincera ed una seconda vita nascosta, anticipa il protagonista di un capolavoro assoluto della musica del Novecento,  quale il già ricordato  Der Zwerg  di von Zemlisky. Anche gli altri personaggi, soprattutto Gilda ed il Duca hanno forti personalità musicali, oltre che drammaturgiche.

Ottima l’orchestra del Teatro dell’Opera- indubbiamente una delle migliori delle fondazioni liriche- diretta da Daniele Gatti, che molti si augurano diventi il direttore musicale dell’istituzione. Gatti dilata i tempi e dà molto spazio ai violoncelli ed ai fiati , creando così una vera e proprio tavolozza di sonorità sul cupo e sottolineando i contrappunti. Il coro è, come sempre, ben guidato da Roberto Gabbiani.

Roberto Frontali è un veterano del ruolo che interpreta a perfezione sia drammaturgicamente sia vocalmente; modula ogni passaggio a perfezione tanto da commuovere il pubblico ed a meritarsi applausi a scena aperta ed ovazioni al calar del sipario. Purissima l’emissione di Lisette Oropesa, una Gilda  che ha letteralmente incantato il pubblico. Qualche spettatore , invece, non ha gradito il Duca di Ismal Jordi: ricordano i tempi quando – commettendo, a mio avviso, un errore – la parte veniva affidata a tenori ‘spinti’, mentre un ruolo con tre ballate è naturalmente adatto ad un tenore lirico. Riccardo Zanellato è un ottimo Sparafucile e Alisa Kolosova una perfetta Maddalena.


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