C’è una città dall’altra parte del fiume, una città che il cantante con la sua chitarra in mano sta osservando dall’alto. Lui è in ombra, le casette in riva al fiume risplendono e una grande luce, tanti raggi di sole, si alzano verso l’alto. Il nome è scritto nel fiume che ancora separa l’ombra dalla cittadina: Peace Town. “Ho sentito parlare della vostra città, Peace Town, ho sentito parlare delle vostre case e delle strade, ho giurato che avrei camminato fino a trovarla, quel nome suona così dolce alle mie orecchie, faccio voto che la cercherò fino a trovarla”.
Su un testo inedito di Woody Guthrie, Jimmy LaFave ha musicato Peace Town, e l’ha fatto suo. Quella città è il paradiso dove si apprestava a dirigersi mentre la incideva, malato, con pochi giorni davanti a sé. Una malattia che se l’è portato via in in poco più di un anno, ma fedele a quello che era, LaFave tre giorni prima di morire era ancora su un palco. In pratica, è morto con la chitarra in mano, come un guerriero che ha combattuto fino all’ultimo la buona battaglia, l’unica che conta: portare bellezza e gioia nel mondo. Ha passato le ultime settimane in studio, incidendo dozzine di canzoni, nonostante i dolori, le medicine, il corpo che lo stava abbandonando. Non si è arreso, ci ha lasciato un doppio cd come eredità di una carriera prestigiosa, sebbene mai di successo, in cui dà il meglio di se stesso, come se la morte non fosse stata dietro l’angolo.
Meglio conosciuto come performer di brani altrui, anche se autore di splendide canzoni. Un po’ tutti lo abbiamo conosciuto quando, nel 1998, uscì un formidabile doppio cd, “Trail” che conteneva un sacco di cover di Bob Dylan, tra cui una indimenticabile Positively 4th Street, tanto che per scriverne le liner notes si mobilitò il biografo ufficiale di Bruce Springsteen, Dave Marsh.
Anche in questo suo ultimo doppio cd LaFave incide un gran numero di cover, alcune sorprendenti nella scelta e nelle esecuzioni, tutte con il suo classico stile intenso, fortemente intriso della grande tradizione americana, sofferto e allo stesso tempo inebriante. E’ il caso di Let My Love Open the Door del Pete Townshend solista del 1980 o del Leon Russell di Help Me Through the Day, che è anche il pezzo migliore del disco, sette minuti giocati tra pianoforte e chitarra lancinante. Non poteva mancare Dylan, ben tre pezzi: irriconoscibile in What Good Am I su cui il cantautore ha ricamato una melodia tutta sua, piena di spiritualità; You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go anche questa personalizzata in modo brillante e My Back Pages. Jimmy LaFave stupisce poi nel riprendere il capolavoro di The Band, It Makes No Difference, brano che resta scolpito nella lancinante versione cantata da Rick Danko. Impossibile arrivare a quei vertici, ma quanta bellezza. Un disco tutto da scoprire, con ascolti ripetuti, da cui salteranno fuori altre gemme come Naturally di JJ Cale o uno dei suoi pochi prezzi autografi, Ramblin’ Sky.
Di Guthrie infine, originario come lui dell’Oklahoma (LaFave faceva parte del comitato onorario che curava le iniziative dedicate al padre della canzone americana) riprende un altro testo inedito, Salvation Train.
Ritroveremo , se ce lo saremo meritati, Jimmy in quella Peace Town che tutti gli uomini buoni cercano, un giorno, ricordando la fortuna di averlo visto in concerto in Italia, una sera di tanti anni fa, con pochi ma buoni intenditori. Potremo dirgli: io c’ero.