Gennaio e febbraio, di gelo e di nebbia che non vedi orizzonte, mesi lunghi e duri da sfangare. Duri come la terra della pianura ghiaccia sotto le suole, attraversata dallo stentato baluginio di un pallido sole. Che non scalda quanto vorresti, quasi inutile alle vite di quaggiù. Non è un caso che Massimo Priviero e Michele Gazich li abbiano scelti per dare il corpo e lo spirito consoni a “Folkrock”, lo splendido cd con allegato un libro di vite, aneddoti e canzoni spiegate. Di cover, ma non è così semplice e diremo perché. Michele Gazich e il suo violino masticano folk-rock da sempre; lo dimostrano le sue numerose collaborazioni (Massimo Bubola, Mike Olson, Eric Andersen) precedenti il suo personale progetto musicale con La Nave dei Folli.
E Gazich è il suo violino, pertanto la riflessione seria e nostalgica, talvolta di necessità malinconica è nelle sue (di uomo e strumento) corde. Massimo Priviero di quella pianura – e del mare che la fronteggia – è figlio e di inverni, climatici ed esistenziali, ne ha battuti e combattuti. Con la sua ultra ventennale esperienza che fa solido un uomo, oltre che quella artistica di rocker affermato. Lo immaginiamo ritto, scolpito nella bruma, imponente eppure fragile allo stesso tempo, come l’albero della copertina di questo disco, scolorito e brullo in attesa di miglior stagione ma con radici ben fitte, che appena riusciamo a figurarci lì sotto e dentro il ferro della terra. Queste radici Priviero e Gazich hanno voluto mostrarci nel loro viaggio poetico e musicale.
Massimo Priviero era il ventenne “solitario menestrello” degli anni 80 del secolo scorso, freddo e polvere nelle scarpe e sulle corde della chitarra, fedele compagna di chilometri per le strade d’Europa. E compagne le canzoni: Dylan, Springsteen, Neil Young, Jackson Browne, rimasticati con la personale urgenza espressiva e rabbia cordiale accanto ai primi tentativi di esprimersi con le proprie composizioni. Poi l’approdo al primo gradino che porta alle stelle, al successo, per quel che vale per uno a cui piace “contare per pochi ma giusti, piuttosto che per una moltitudine di niente”. Le radici dell’albero-Priviero sono negli epigoni che abbiamo detto, già omaggiati in “Rock&Poems” del 2007. Cover quelle come i classici proposti all’ascolto delle buone orecchie dal duo Priviero-Gazich. Solo cover? No, ripeto, troppo riduttivo. Torniamo ancora alla foto di copertina, la cover appunto. Quell’albero ci suggerisce molto sul contenuto del cd: c’è il duro – rock – della scorza e del tronco accanto alla sua stessa presenza, ombra, solitudine così familiare e popolare – folk, appunto.
E ci sono quelle radici che affondano nel coacervo esistenziale di conflitti, paure, dolore, gioie e speranze, affetti e incontri: tutto quanto struttura l’essere e che, seppure nascosto e talora insondabile, rende ragione di ciò che si erge alla superficie. Priviero e Gazich, in “Folkrock” rivelano il loro celato rivisitando alcuni classici in chiave personale e acustica, e pescano tra testi ed autori per dirci molto di più che semplicemente il loro apprendistato. Ci svelano i maestri, i testimoni autorevoli a cui hanno guardato e guardano, quelli che sanno parlare al tuo cuore e del tuo cuore meglio di te, esprimendone in modo geniale gli aneliti. Evidenziano le domande che da sempre urgono in una umanità onestamente inquieta e ne cercano tracce di corrispondenza nella poesia e squarci di esistenza altrui.
Nella track list che compone il cd troviamo, così, la caducità mendicante il perdono e la conversione figurate nei versi diHouse of the rising sun e Mr. Bojangles; dalle strofe della commovente Give me love to Rose del “man in black” Johnny Cash o dalla ruvida Thunder road del “boss” trapela il desiderio di un amore incorruttibile, dolorosamente contrapposto alla constatazione dell’incapacità di fare il bene di Hey,Joe. Altrove è espressa, cruda e sanguinante, l’esigenza di giustizia (Before the deluge e le dylaniane Ring them bells eHard rain’s a-gonna fall) e di felicità inesausta (Helpless), o ancora l’agognata pacificazione che dà il tornare a casa e all’abbraccio del Padre dei milioni di figli prodighi (And the healing has begun) – e sul tema si ascolti anche la bellissima Angel di Massimo.
Dunque, in questa ricerca, Priviero e Gazich non sono compagni occasionali ma veri amici, l’uno per l’altro, giacché è solo da una sincera condivisione che può far scaturire un prodotto di indubbio spessore esistenziale, prima e oltre che artistico, com’è il loro disco. Ed a commuoverci e a muoverci con loro ci siamo tutti noi, coloro che in ogni istante del vivere sono spinti dalla sete di significato e di senso. In questa fatica, che è sì personale, è giocoforza imbattersi in due compagni di strada come Massimo e Michele ed insieme continuare il cammino. Ecco spiegate le ragioni per cui Folkrock non è semplicemente una raccolta di cover. Ad ulteriore conferma: l’ultimo brano in scaletta è What a wonderful world, rivoluzionario ed ostinato, non a caso messo lì, in posizione finale. Rivoluzionario, come con Dostoievskij affermare che la bellezza salverà il mondo: ma perché assurdo quando il brutto straborda da noi e intorno a noi.
Priviero e Gazich hanno deciso per un’esecuzione di sola voce con accompagnamento di violino, di effetto straniante – certo per un richiamo a distogliere lo sguardo dagli illusori bagliori delle apparenze – unico modo per farsi ascoltare perché disturbante, come un lamento in clima festante o, peggio, come può esserlo solo un silenzio pensoso nel vociare impazzito e la confusione del mondo. Ma anche ostinato, perché lo è bulgakovianamente un fatto, e il reale – il mondo – è un fatto, anzi è fatto. Pertanto, in conclusione, ci viene spontaneo ringraziare due amici che ce lo hanno ricordato con le parole della canzone immortalata da Louis Armstrong: nonostante le sofferenze, i dolori, le fatiche che quotidianamente questa vita ci mette di fronte, com’è bello il mondo! (e com’è grande Dio – aggiungiamo noi -, giusto così, per non dimenticare da Chi è fatto).
(Ruggiero De Benedittis)