Sanremo 2013, il commento alla seconda serata – Una seconda serata più loffia, non c’è dubbio, segnata anche da un lutto gravissimo che ha impedito ai Ricchi e Poveri di partecipare e ritirare il proprio il premio alla carriera. E’ mancato il vero ospite, il Crozza della situazione, che bravo o non bravo, comunque fa richiamo. Fazio appare a tratti annoiato, mai uno slancio, un brivido, e forse è proprio lui il vero “monotono” di Sanremo. La Littizzetto invece è riuscita a tenere su tutta la baracca anche la seconda serata. Sopra le righe ma mai troppo da disturbare, sicura, arriva sempre a rianimare i momenti morti, è lei la vera protagonista di Sanremo e non ho dubbi nel dire che sarebbe riuscita a sostenere la conduzione anche da sola. L’apertura di questa seconda puntata è affidata a Beppe Fiorello con il suo omaggio a Modugno. Un omaggio voluto non a caso, visto che sarà protagonista proprio di una fiction dedicata a questo grande artista. Modugno è sempre Modugno, Beppe Fiorello si è impegnato non c’è che dire e non è stato male, solo che queste marchette che la Rai fa a se stessa e che tutti gli anni arrivano furbamente (avete mai notato che subito dopo Sanremo c’è sempre magicamente un qualcosa di tematico che sfrutta l’effetto trascinamento della kermesse?), lasciano sempre un po’ così, come dopo la pubblicità dei fanghi Guam. Gli ospiti questa volta non sono stati all’altezza, a parte l’esibizione dell’israeliano Asaf Avidan, virtuoso a tal punto che la domanda se sia un genio o fuffa sorge veramente spontanea.
E poi come tutti gli anni non ci si può esimere dall’invitare le belle di turno, quasi come se potesse cascare un meteorite sull’Ariston se non si facesse. Quest’anno è toccato alla modella israeliana Bar Refaeli e l’ex premiere dame Carla Bruni, che ha voluto cantare, propinandoci a forza le sue inutili canzoncine, ovvero l’hobby delle donne piene di soldi e annoiate (perché qualcuno non lesuggerisce il giardinaggio come atto creativo?). Meno male che tra una domanda insulsa e un’altra di Fazio, d’obbligo quella sul rapporto con l’Italia immancabile come il picco influenzale di questi tempi, c’era la Littizzetto a smorzare i toni e a far risultare ancora più inutili e insulse queste bellezze.
Ma passiamo alle canzoni, quelle che dovrebbero essere le vere protagoniste. Per la categoria big ieri si è visto il meglio e il peggio della musica italiana: i Modà ed Elio e Le Storie Tese. Inutili i primi, geniali i secondi. Gli “Elii” hanno fatto quello che avrebbe dovuto fare Crozza martedì, satira, satira su Sanremo. Con la loro canzone mononota, sono riusciti con la proverbiale ironia a prendere in giro in un colpo solo tutti i loro colleghi. Da segnalare Cristicchi, tra il furbo e l’impegnato (sono quei personaggi da capire se ci sono o ci fanno) e Max Gazzè coerente a Max Gazzé, cosa che a Sanremo è tutt’altro che scontata.
Malika Ayanne brava ma niente più, Annalisa Scarrone non pervenuta, dimostra l’inutilità dei talent se alla base non si trovano bravi autori e poi gli Almamegretta, sufficienti, ma da loro mi aspettavo che osassero di più e invece si sono un po’ lasciati andare alle lusinghe sanremesi. In questa puntata, come al solito alla fine, si sono esibiti anche quattro giovani.
La categoria giovani è quella che ogni anno sconcerta di più. Dovrebbe essere quella in cui la sperimentazione e l’osare diventi un must e invece ogni anno si sentono le solite cose, che annoiano mortalmente. Il migliore è stato comunque Renzo Rubino, che almeno ha affrontato un tema decisamente interessante e con una certa naturalezza, peccato poteva osare anche musicalmente e invece lì è rimasto, classicheggiante. I Blastema in assoluto i peggiori, un mostro ibrido tra Afterhours e Negramaro. In mezzo Irene Ghiotti, sopra le righe ma non abbastanza da rimanere impressa. Il Cile non pervenuto anche lui. Insomma anche questa seconda puntata è passata e a me è venuta in mente una riflessione, ascoltandomi in questi giorni alcuni pezzi del passato di Sanremo. La vera piaga è che a Sanremo mancano gli autori. Cioè ci sono e anche di spessore (penso a Bianconi e Zampaglione). Però è come se oggi si scrivessero delle canzoni e poi gli interpreti andassero a caccia di qualcosa che possa funzionare. In passato un autore scriveva appositamente una canzone per un determinato artista, per lui e basta, gliela cuciva addosso come un sarto ti cuce addosso un vestito. Riascoltatevi “E non finisce mica il cielo” cantata da Mia Martina e scritta da Ivano Fossati e la differenze salterà lampante agli occhi.
(Barbara Dardanelli)