Di fronte a un'edizione che si è liberata di inutili sermoni ideologici e non ha suscitato scandali, il vescovo di Sanremo promuove il Festival
Ligure, 62 anni, monsignor Antonio Suetta è dal 2014 vescovo di Ventimiglia-Sanremo. Quando fu scelto da papa Francesco per guidare la diocesi dei fiori, era il più giovane vescovo d’Italia. Gli abbiamo chiesto un giudizio sul Festival appena concluso e come ha personalmente vissuto la kermesse canora.
Nelle ultime edizioni del Festival è intervenuto più volte come Pastore di fronte a monologhi e performance davvero poco rispettosi della fede e del sentimento popolare. Quest’anno nessun sermone, nessuno scandalo. Si sente di dire che è andata meglio?
Già dall’edizione dello scorso anno (l’ultima presentata da Amadeus), il Festival aveva evidenziato uno stile meno ideologicamente rigido e più rispettoso anche nei confronti del sentimento religioso e dei valori morali comuni. Con Carlo Conti la situazione è decisamente migliorata, grazie anche alla saggia decisione di eliminare i monologhi di artisti e personaggi vari. Mi pare che il ritorno alla centralità della musica abbia premiato il direttore artistico e conduttore anche con un significativo riscontro di share e di ascolti.
Ha potuto seguire la manifestazione e c’è una canzone in particolare che l’ha colpita?
Non ho potuto assistere a tutte le serate del Festival, ma ho apprezzato il progressivo coinvolgimento della città di Sanremo anche al di fuori del Teatro e dello spettacolo. Mi sono piaciute molto le canzoni di Cristicchi, di Giorgia e di Lucio Corsi.
I primi tre classificati hanno affrontato nelle loro canzoni la delusione per un amore finito (Olly), la nostra fragilità, che va accettata (Lucio Corsi), e l’amore per la propria bambina (Brunori Sas). Una svolta intimista o il coraggio di guardare in faccia i limiti, ma anche il desiderio di compimento e di infinito dell’uomo?
Il tema dell’amore, colto anche nell’inevitabile prospettiva della fatica e della sofferenza ad esso connessa, è ricorrente nell’arte in genere e nella musica leggera. L’amore è una via esperienziale per guardare nel cuore umano che, come afferma il Salmo 63, “è un abisso”, e sa far affiorare i tratti più caratteristici dell’uomo insieme all’anelito della verità e della gioia piena. Pur nella “leggerezza” di uno spettacolo come il Festival, è curioso ed interessante come, specialmente i giovani, possano essere condotti a una più seria riflessione anche attraverso contributi di questo tipo: sono convinto che la musica li conduca comunque a scavare meglio nelle loro domande.
La canzone di Cristicchi, quella che lei più ha apprezzato, ha emozionato tutti perché è uno struggente atto d’amore verso la madre anziana e malata. Lei come vescovo gli ha concesso la chiesa di San Siro, per un concerto a margine del Festival, che ha avuto molto successo. Forse perché è un inno al prendersi cura, come alternativa alla scelta disperata e disumana del suicidio assistito?
È nella sensibilità di Cristicchi cogliere e trattare temi sociali e antropologici nelle canzoni, com’è stato anche nel 2007 con il brano Ti regalerò una rosa, vincitore di quel Festival. Anche quest’anno ha voluto presentare, con squisita delicatezza e profondità, il tema della cura della fragilità. La sua canzone ha indubbiamente un grande valore di attualità e di stimolo rispetto a una concezione utilitaristica e funzionale della vita umana. Occorre ricordare che un’esistenza inguaribile non è mai incurabile e che il farsene carico affettivamente ne riconosce la assoluta dignità e consente a chi sta intorno al malato di ricevere molto in termini di relazione e comprensione dell’umano.
Come mai ha concesso a Cristicchi la possibilità dell’evento nella chiesa di San Siro, mai offerta ad altri?
A Cristicchi ho concesso di presentare un evento nella Basilica concattedrale di San Siro perché ho colto immediatamente nella sua richiesta e nel suo atteggiamento il desiderio e l’entusiasmo di condividere un percorso di ricerca spirituale senza dubbio attinente alla dimensione religiosa.
Non si è trattato propriamente di un concerto, ma appunto di un evento, preparato insieme, in cui un’iniziale preghiera cantata da un coro e la recita conclusiva del Padre Nostro hanno incastonato la testimonianza di Simone, attraverso alcuni suoi brani, nel contesto di un racconto di sé proiettato nello stupore della ricerca di Dio. I numerosi partecipanti ne hanno dato riscontro con un atteggiamento di silenzio e raccoglimento. Ho consentito questa iniziativa nella convinzione e nella speranza di creare un “ponte” di attenzione e confronto con un appuntamento, il Festival, che comunque segna la nostra realtà ecclesiale.
Ormai non assistiamo più soltanto a una passerella di canzoni, un evento puntuale, ma a una kermesse complessa, accompagnata da un fortissimo sostegno mediatico, forse esagerato, che ha un prima, un durante e un dopo. È stato tradito lo spirito originario?
Certamente c’è stata una consistente evoluzione corrispondente sia al progresso della comunicazione, sia all’evoluzione del contesto culturale. Ha superato il confine italiano e il carattere di una rassegna della canzone italiana per diventare sempre più, da una parte, un veicolo di moda e di provocazioni di costume e, dall’altra, una gigantesca macchina di pubblicità e profitto.
Questo ha indubbiamente alterato la sua natura originaria (qualcuno direbbe magari che l’ha compiuta) e lo ha reso un evento, un fenomeno cioè dalle mille sfaccettature. Resta in ogni caso uno dei tanti modi con cui la televisione concorre a dare forma, positiva o negativa, alla società; di questo dobbiamo tenere conto anche come cattolici e come Chiesa. Non si può e non si deve approvare o condannare in toto senza considerare innanzitutto il suo carattere di spettacolo e poi senza distinguere in esso i diversi apporti.
Che cosa resta di questa edizione nella sua diocesi e in tutti noi? Qual è il messaggio che ci consegna?
La 75ma edizione del Festival ci consegna un interessante spaccato della società e della cultura contemporanea, in cui siamo immersi e con cui dobbiamo imparare a far la fatica di dialogare.
Fiduciosi che una proposta pacifica e chiara di valori cristiani possa entrare efficacemente in contatto con uno scenario fatto sì di debolezza culturale e antropologica, che ci porta a smascherare inganni e false prospettive, ma ci stimola anche ad offrire qualche risposta, ove possibile, e soprattutto a raccogliere qualche anelito di pienezza, restituendo sempre un giudizio chiaro che, fino all’ultimo, non si arrende all’insignificanza e alla banalità che sempre più ci circonda.
(Vincenzo Sansonetti)
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