Elon Musk e Zohran Mamdani sembrano diversi, ma in realtà hanno dei punti comuni importanti e interessanti

Elon Musk ha annunciato il suo nuovo partito quando a New York erano ancora freschi i risultati definitivi delle primarie dem per il sindaco: ancor più clamorosi di quelli provvisori. Una volta ricondotte ai due primi contendenti le schede disperse su altri candidati, Zohran Mamdani ha incassato uno score finale del 56%, mentre l’ex Governatore Andrew Cuomo si è fermato a quota 44%. Di fronte a una tale debacle il grande vecchio dei dem newyorkesi ha congelato l’idea iniziale di presentarsi comunque al voto di novembre come indipendente (lo farà già il sindaco uscente, Eric Adams, ex poliziotto afro, eletto quattro anni fa come dem, oggi in rotta con il partito per scandali e sospetta conversione trumpiana).



Il tycoon di Tesla e Starlink – ministro-meteora di Donald Trump – e il 33enne finora sconosciuto deputato dello Stato di New York non potrebbero apparire più diversi nell’incarnare due radicalismi emergenti contro quello fattosi potere sei mesi fa alla Casa Bianca. Hanno tuttavia in comune una carta d’identità particolare: entrambi non sono nati negli Usa ma in Africa. Musk in Sudafrica, Paese natale del padre, mentre la madre è di origini canadesi. Mamdani è invece nato in Uganda da genitori indiani.



Ambedue su ritrovano oggi a rilanciare l’opposizione democratica a un Presidente che sembra non averne più al Congresso. Ma né Musk né Mamdani – a meno che la Costituzione venga modificata – potranno correre per la Casa Bianca: sono entrambi cittadini statunitensi naturalizzati, privi di pieno ius soli.

Prima ancora che le forme e i contenuti delle rispettive proposte politiche, queste premesse di contesto sembrano aprire spazi di riflessione non banali e inesplorati sulle mutazioni in corso nel più potente Paese del mondo. Un Paese da 249 anni culla e laboratorio di tutte le libertà civili, politiche, economiche e culturali; nonché permanente “crogiolo di razze”.



Non è stato certo per caso che Trump – newyorkese, ben votato in città lo scorso novembre – si sia subito scomodato contro Mamdani puntando il dito contro le sue origini afro-asiatiche e minacciando la revoca della cittadinanza. Nella logica Maga gli immigrati recenti – compresi in un unico fascio gli studenti di Harvard con visto temporaneo – non sono “americani veri”: pur essendo la quasi totalità dei cittadini statunitensi discendenti di immigrati (compresa la famiglia Trump). Ora la prima rivolta politica contro Maga – molto più insidiosa di quella tentata da qualche magistrato politicamente schierato – viene da due immigrati doc.

Su questo versante non è stato affatto scontato che a rinfacciare a Mamdani il suo status di “americano nato in Africa e di origini asiatiche” – dichiarato all’iscrizione alla Columbia University – sia stato il New York Times: la voce storica dell’establishment dem-liberal, fra Manhattan e Washington; e paladino politically correct di tutte le minoranze da includere. Ma è parso uno dei passaggi simbolici di uno spiazzamento vasto e multiplo.

Più che disorientata è rimasta anzitutto la colonia di immigrati più potente di una metropoli che resta la più popolata da israeliti fuori da Israele. Gli ebrei newyorchesi (in parte già trasmigrati attorno all’inquilino della Trump Tower) si sono ritrovati inaspettatamente sotto la pressione della leadership emergente di un islamico dichiarato all’interno del “loro” perimetro dem. Ma due anni di guerra di Gaza hanno lasciato tracce profonde: anche fra gli 8,5 milioni di newyorkesi (discreto campione di “civiltà occidentale”); anche nella loro forte componente-diaspora; anche fra docenti e studenti (molti israeliti) della Columbia.

Una seconda onda d’urto è stata mossa da una questione generazionale che appare non più contenibile nella metà dem degli Usa (e forse non solo). La sconfitta del 67enne Cuomo – usurato nell’immagine personale e politica – non è stata diversa dalla resa dell’81enne Biden, mal rimpiazzato da Kamala Harris, imposta dai 77enni coniugi Clinton e dall’85enne Nancy Pelosi. “La generazione Z pretende le chiavi della macchina”, ha dovuto riconoscere lo stesso Nyt, pur ancora poco convinto di endorsare Mamdani. Eppure il fattore età appare cruciale in ogni strategia contro Trump, il quale non a caso si è scelto come vice il 40enne JD Vance (in rampa virtuale per il 2028).

Ha 35 anni Alexandra Ocasio-Cortez, deputata a Washington per il Bronx, finora predestinata al ruolo di Bernie Sanders, non più che portabandiera di un pur robusto “professionismo d’opposizione”, da sinistra nel Paese e fra i dem. Ma proprio l’effetto Mamdani sembra scuotere in profondità categorie e gerarchie.

Sul “socialismo estremista” di Mamdani si sono soffermati anche i commenti a caldo sul suo successo. Il suo programma si presentava indubbiamente come radicale nel proporre blocco degli affitti, trasporti pubblici gratis e spacci comunali per calmierare l’inflazione nei beni di primo consumo. Ma le analisi che stanno disaggregando i dati elettorali cominciano a raccontare che il sostegno decisivo alla candidatura più inattesa non sarebbe venuto dalle fasce di popolazione a più basso reddito, nelle periferie territoriali e sociali della Grande Mela. Anzitutto: la più emblematica fra le minoranze tradizionali – quella afro – non avrebbe tradito Cuomo.

A lanciare Mamdani sembra essere stata invece la classe media: cittadini con buoni livelli di reddito, educazione e professionalità, che – soprattutto nelle fasce giovani – stanno trovando sempre più “harsh” vivere in una città che pure continua naturalmente ad attrarre talenti. In parte sono elettori dem che avrebbero disertato le ultime presidenziali o il voto comunale del 2021. Mentre il problema prioritario non sembra più essere la sicurezza: quella post-Covid decisiva per Adams quattro anni fa come quella post crisi economica per Rudolph Giuliani negli anni ’80 del secolo scorso.

È in questo ennesimo crogiolo che l’1% assegnato dai poll a Mamdani il 5 novembre scorso è diventato il 56% a fine giugno: per un candidato che ormai difficilmente può essere ridotto all’etichetta radical-socialista. È invece un politico che fa parte di una minoranza ma non non ha fatto dell’appartenenza una leva elettorale. E ha ricevuto supporto esteso di elettori dem che paiono meno interessati alle “geografie delle minoranze” – etniche, culturali, religiose, anche geopolitiche – in una metropoli realmente globalizzata.

È un quadro in cui sembra in difficoltà anche l’obiezione-regina che già non ha funzionato nelle urne dem. Se anche Mamdani diventasse sindaco della città di Wall Street – dicono i critici – difficilmente potrà sconfiggere le lobby dei proprietari immobiliari, spesso grandi investitori che verrebbero colpiti sia dal blocco dei fitti, sia dal prevedibile rialzo delle tasse locali su redditi e patrimoni più ricchi. Resta una considerazione valida a valle delle primarie, anche se i gradi di libertà nello sviluppo di una nuova politica socioeconomica metropolitana non sembrano mancare nei 120 giorni prima del voto. Mentre fra gli effetti-Mamdani sembra potersi cogliere il primo emergere di un nuovo blocco sociopolitico.

“Progressivism post-woke” è una nuova etichetta politologica certamente più astrusa della sua sostanza concreta: che un commentatore ha più efficacemente sintetizzato nell’aggregato tra i repubblicani cui Trump non piacerà mai e i democratici cui l’establishment dem non piace più. Su entrambi i versanti il malessere avrebbe molte e disparate ragioni: tasse alte e debiti pubblici in aumento per finanziare guerre (iniziate da Biden e continuate da Trump); migranti cacciati dalla guardia nazionale ma anche caste mediatico-accademiche sempre più intolleranti nell’imporre il mantra Diversity-Equity-Inclusion nelle scuole o nelle aziende. Ma all’osso: inflazione per chi ha redditi medi; e niente salari minimi per chi ce li ha più bassi.

Mamdani stesso ha intanto delineato i confini socioeconomici del suo “campo largo”: fuori solo i “miliardari” (sic), dentro tutti coloro che si guadagnano da vivere lavorando e vorrebbero quotidianità “affordable”, compatibile con i bilanci individuali o familiari.

A New York si è scoperto che a votare un leader così con una visione così oggi sono molti: sono la maggioranza assoluta dei dem. Naturalmente in attesa di osservare l’esito della sfida finale di novembre (un anno prima del voto midterm nazionale). E in attesa di capire come l’iper-miliardario Musk svilupperà il suo progetto politico: in uno scenario forse incognito anche per il più visionario – il più “radicale” – degli uomini d’affari del ventunesimo secolo.

P.S:: Musk è il proprietario di X; Mamdani è già diventato un caso di studio per una campagna pacata e sorridente, condotta principalmente in prima persona su Instagram e Tik-Tok; e vincente contro un budget record di 25 milioni di dollari, in gran bruciati da Cuomo in pubblicità televisiva di discredito dell’avversario.

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