I NUMERI/ Una nuova “guerra” sconvolge famiglia e lavoro
Un recente fatto di cronaca riaccende i riflettori sulle differenze di genere presenti nel mondo del lavoro, specialmente per quel che riguarda le retribuzioni. Ne parla PAOLA LIBERACE

Se foste un piccolo imprenditore lombardo, titolare di una piccola impresa meccanica con una trentina di dipendenti, uomini e donne; se la crisi economica avesse sorpreso anche la vostra impresa, mettendovi di fronte alla necessità di tagliare il tagliabile; se aveste preso la decisione di includere in questi tagli i posti di lavoro, e se di questi posti di lavoro diciotto fossero occupati da donne, operaie specializzate, e dodici da uomini, come scegliereste i dipendenti da mettere in cassa integrazione, e poi da licenziare?
Alla Ma.vib di Inzago, che produce motori per impianti di condizionamento, il criterio apparentemente adottato è stato il sesso: i lavoratori messi fuori, tra 10 e 13, sono tutte donne. La motivazione addotta dall’aziendina, secondo i sindacati (che sono sul piede di guerra), è stata la possibilità per le lavoratrici di curare i loro figli; ma, soprattutto, il minore contributo economico rappresentato dal loro stipendio nel bilancio familiare.
“Quello che le donne portano a casa è il secondo stipendio”: la contestata dichiarazione che i rappresentanti della Ma.vib. avrebbero fatto davanti all’Associazione delle piccole e medie imprese (Api) è confortata dai numeri. Secondo l’ultimo aggiornamento dei dati di occupazione dell’Istat, l’occupazione femminile è in crescita (0,1 punti percentuali guadagnati a maggio rispetto ad aprile, e 0,4% in più rispetto all’anno scorso), più di quella maschile (scesa di 0,4 punti rispetto al 2010); mentre la disoccupazione femminile è regredita più di quella maschile (nel primo trimestre, il tasso di disoccupazione generale è in calo rispetto all’anno scorso – 8,6% contro il 9,1% del 2010; ma per gli uomini l’indicatore decresce di 0,2 punti percentuali, per le donne di 0,9 punti). Ma questi dati vanno letti insieme a quelli sulle retribuzioni, resi noti nell’ambito del Rapporto Annuale Istat 2011: in media lo stipendio netto mensile delle lavoratrici dipendenti è di 1.131 euro, contro i 1.407 degli uomini – circa il 20% in meno.
Più rosei i numeri che emergono dalla recente ricerca condotta dalla Sda Bocconi in collaborazione con Hay Group, che mostra un divario del 12,5% tra gli stipendi maschili e femminili a parità di incarico: ma parla anche di un gender pay gap persistente, dovuto anche, e soprattutto, alla concentrazione di donne in ruoli di minore responsabilità e in funzioni aziendali a più bassa retribuzione.
Una “segregazione orizzontale” che contribuisce a rendere il modello del “male breadwinner” nostrano duro a morire: secondo l’ultimo rapporto Isfol su mercato del lavoro e politiche di genere, tra il 2009 e il 2010, in Italia si concentra, tra i vari paesi europei, il più alto numero di coppie con donne in età attiva (tra i 25 e i 54 anni) in cui lavora soltanto l’uomo (37,2% contro il 10% dei paesi nordici). Quel che è più interessante è che, anche laddove la donna lavora, il suo contributo al reddito familiare si attesta in una misura inferiore al 40%, proprio per via della collocazione femminile marginale rispetto alle posizioni più remunerative.
Avrà pensato a tutto questo il titolare della Ma.vib. mentre sceglieva a chi sottrarre l’agognata retribuzione mensile, concludendo che l’impatto sulle famiglie sarebbe stato inferiore in caso di licenziamenti femminili? Spettava a lui, e alla sua aziendina da trenta dipendenti, cambiare tutto questo con un atto quasi simbolico, ma che sarebbe piaciuto molto ai sindacati?
E soprattutto: trasformare una crisi economica in un’occasione di guerra tra i sessi in nome della rivendicazione di un mondo ideale, in cui nessuno perde ricavi, né posti di lavoro, avrà alla fine qualche effetto positivo, o si tradurrà in un mero esercizio di immaginazione al potere?
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