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Home » Lavoro » Giovani, Famiglia e Lavoro » IL CASO/ I 6000 posti di lavoro che i giovani italiani non vogliono

  • Giovani, Famiglia e Lavoro

IL CASO/ I 6000 posti di lavoro che i giovani italiani non vogliono

Giuseppe Sabella, Benedetta Cosmi
Pubblicato 22 Aprile 2013
Giovani_Lavoro_MorseR439

Immagine di archivio

L’Italia ha il record europeo di giovani che hanno rinunciato a cercare lavoro. Eppure ci sono migliaia di posti liberi. L’analisi di GIUSEPPE SABELLA e BENEDETTA COSMI

L’Italia è di gran lunga il Paese Ue con il maggior numero di “rassegnati”, ovvero coloro che potrebbero lavorare ma hanno rinunciato a cercare un’occupazione. Un totale di 2.975 milioni di persone, pari a un potenziale 12,1% di forza lavorativa in più. È quanto emerge da un’analisi Eurostat su dati 2012. Si tratta di quasi la metà dei 6.056 milioni di sfiduciati nell’eurozona, pari al 4,9% della potenziale forza lavoro, che l’istituto statistico identifica nella fascia d’età tra i 15 ai 74 anni. Il secondo Paese Ue con il maggior numero dei “senza fiducia” è la Spagna (1,071 milioni, 5,7%).


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Se ci riferiamo alla fascia 15-24, oltre a un tasso di disoccupazione molto alto (37,8%), gli inattivi in Italia sono circa 2 milioni (oltre il 22%). Questo esercito inoperoso di 2 milioni di giovani ipoteca, oltre al proprio futuro, circa 26 miliardi di euro l’anno pari al 1,7% del Pil, al netto delle mancate tasse, dei costi indiretti in termini di salute e criminalità, oltre che di perdita di competitività sociale (fonte: Eurofound).


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Non è certamente un momento di grandi opportunità occupazionali, ma colpisce apprendere dalla Fipe (la Federazione italiana pubblici esercizi che aderisce a Confcommercio) l’allarme per la cronica mancanza di pizzaioli qualificati proprio nell’Italia che ha lanciato la pizza nel mondo. Sarebbero 6mila i posti vacanti, ma il dato potrebbe essere approssimato per difetto per come velocemente stanno cambiando i consumi nell’epoca della grande recessione: circa l’8% dei consumatori interpellati dal centro studi Fipe mangia la pizza a colazione. Così la domanda di pizza cresce esponenzialmente, come la forza-lavoro correlata che ora si attesta su circa 240mila addetti in tutta Italia.


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I più lesti a capire il radicale cambiamento dei consumi sono stati gli egiziani, ormai i più bravi anche nell’impasto e nella vendita del prodotto. Meno di una settimana fa, Enrico Stoppani, il Presidente della Fipe, interpellato nel merito dichiarava al Corriere della Sera: “Nelle grandi città come Milano e Roma ormai hanno ottenuto una rendita di posizione che li rende estremamente credibili presso la clientela italica, che non storce più il naso se il pizzaiolo non è made in Forcella” (quartiere storico di Napoli, ndr).

Ma perché tanti giovani inattivi e tanti posti vacanti per aspiranti pizzaioli? La realtà dei fatti è che in Italia il settore manifatturiero – si tratta di una delle nostre eccellenze nel mondo figlia anche di una grande tradizione di istituti tecnici e professionali oggi oramai molto ridimensionata – è stato completamente svalutato per via di una certa cultura e attitudine genitoriale che a tutti i costi vuole i figli al liceo e poi laureati – senza riuscirci naturalmente – forzati quindi allo studio e con poca percentuale di successo nel raggiungimento del titolo accademico. Non perché alcuni siano poco intelligenti, ma perché, evidentemente, c’è chi è più portato allo studio e c’è chi è più incline a un certo tipo di formazione tecnica e professionale. Proprio questa enfasi sulla laurea a tutti i costi e sulla presunta subordinazione del lavoro manuale conduce al mancato reclutamento di professionalità richieste dalle aziende e dal mercato prevalentemente manuali, come nel caso di questi 6.000 pizzaioli. Il dato è davvero ragguardevole se si pensa che sono circa 650.000 i giovani disoccupati.

Fare il pane o la pizza in questi anni non rientra più nella natura della scuola. Serve un cambio di rotta a partire dalla scuola superiore. Abbiamo bisogno di rivalutare certe competenze e di non considerarle più secondarie, accessorie, bensì imprescindibili, fondamentali per la formazione dell’individuo, per lo sviluppo del carattere, del senso civico e di una nuova cultura.

I dati dell’indagine triennale Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment) circa i paesi di maggiore successo scolastico, in Europa come oltre oceano, rilevano per esempio che in Canada caratteristica fondante è avere poche materie uguali per tutti e altre a scelta dello studente, senza indirizzi. Così prescrittivi, così discriminanti. Nell’Ontario, per esempio, sarebbe stato possibile scegliere di seguire nello stesso istituto il corso di greco e anche quello di falegnameria. Le famiglie e gli studenti, a inizio d’anno, devono scegliere 10 materie tra un elenco di insegnamenti complementari, quindi oltre a quelle 3 o 4 obbligatorie per tutti, in quel caso inglese, francese e matematica, ognuno secondo proprie inclinazioni si troverà così con alcuni compagni di scuola per alcune ore a studiare materie come filosofia e in altre ore con altri, in un’altra aula per materie più tecniche, manuali, culinarie, professionalizzanti.

A nessuno sfugge che questo tipo di organizzazione sarebbe molto utile anche in Italia per rivalutare la cultura del lavoro manuale, onde evitare che la scuola superiore possa allontanare i giovani dal mondo del lavoro a causa di pregiudizi, con scuole “ghetto”, con indirizzi di serie A e indirizzi di serie B, tanto incapaci ormai sia gli uni sia gli altri di orientare e accompagnare le nuove leve nel mondo delle professioni e dei mestieri. Chi lo dice che sia giusto separare nettamente il percorso umanistico da quello scientifico e da quello manuale?

Nel frattempo ci teniamo un buco di 6.000 pizzaioli. Potremmo forse provare a chiedere agli egiziani: loro che hanno inventato la matematica (i testi matematici più antichi provengono dall’antico Egitto), non si sono dimenticati che, come avrebbe ben detto don Bosco qualche millennio dopo, l’intelligenza è (anche) nelle mani.

Tags: Formazione lavoro

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