I NUMERI/ Lo “spread” del lavoro che pesa sull’Italia

- Massimo Ferlini

L'indicatore più utile per valutare il lavoro in un Paese è il tasso di occupazione. MASSIMO FERLINI analizza i dati registrati in Italia negli anni della crisi ancora in corso

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Il nuovo Rapporto annuale dell’Istat cerca di tracciare un quadro del nostro Paese pubblicando finalmente, oltre ai tanti dati statistici, un quadro di dati e valutazioni qualitative utili per avere uno sguardo complessivo sull’evoluzione dell’economia e della società. Ad altri il compito di approfondire i tempi più generali. Qui trattiamo, grazie al fatto di poter confrontare dati di medio termine, la situazione dell’occupazione per come si è mossa nel periodo di crisi che stiamo ancora attraversando.

Nel corso degli ultimi mesi abbiamo commentato altri dati, i movimenti del mercato del lavoro dell’ultimo trimestre sulla base dalle Comunicazioni obbligatorie o il tasso di disoccupazione rilevato sempre in quel periodo e che ha segnato un ulteriore aumento. Sono questi indicatori utili per indirizzare le politiche attive e per misurare la febbre del mercato del lavoro nel breve periodo, ma non ci dicono come si evolve lo stato complessivo del mercato.

L’indicatore più utile, possiamo dire la bussola fondamentale, per valutare il lavoro in un Paese è il tasso di occupazione, che ci dice quanti sono gli occupati rispetto alla popolazione complessiva. Generalmente si considera la fascia d’età tra i 15 e i 64 anni, ossia il periodo lavorativo della vita adulta. L’Istat intende per occupati coloro che risultano aver prestato nella settimana di riferimento almeno un’ora di lavoro retribuito (o gratuito ma in azienda famigliare). Si possono poi valutare sottoclassi per età (tasso d’occupazione giovanile, ecc.) o per sesso.

Tenendoci sui dati generali fra il 2008 (preso come inizio di crisi) e il 2014, il tasso di occupazione in Italia passa dal 58,6% al 55,7%. Si perdono perciò quasi tre punti percentuali. Gli obiettivi europei di piena occupazione indicano nel 70% il tasso di occupazione da raggiungere. Il percorso è ancora lungo e serviranno politiche espansive per recuperare un gap di oltre 14 punti. Ma questo dato se scomposto indica un tasso di occupazione maschile che è al 64,7% e un tasso di occupazione femminile del 46,8% nel 2014. Per quanto riguarda il primo si registra nei sei anni di crisi un calo di 5,4 punti percentuali, mentre per il secondo il calo è di solo 0,4 punti. L’occupazione femminile ha retto maggiormente nella crisi grazie, è vero, a misure di sostegno specifiche per la conciliazione famiglia-lavoro, ma soprattutto per un aumento del part-time, anche involontario, che ha sostenuto il tasso complessivo.

Va inoltre ricordato che ai fini statistici fra gli occupati continuano a essere calcolati anche coloro che sono in cassa integrazione, pur se dipendenti da imprese che non riattiveranno più, totalmente o parzialmente, il riassorbimento della manodopera.

Il nostro Paese è inoltre poco omogeneo per quanto attiene la situazione economica dei diversi territori. Il tasso di occupazione al Nord era il 66,9% ed è calato di 2,6 punti durante la crisi. Resta di circa 10 punti superiore alla media nazionale. Specularmente nel Sud era il 45% ed è sceso di 3,2 punti, passando da -10 punti circa rispetto alla media nazionale a un distacco di circa 15 punti nell’ultimo anno rilevato. Il Centro Italia si colloca in modo intermedio, perdendo quasi 2 punti negli anni considerati, rimanendo fra i 5 e i 6 punti al di sotto della media nazionale.

Gli squilibri economici territoriali del nostro Paese hanno ragioni storiche profonde. Il dato che la crisi fa emergere è che le misure per lo sviluppo tentate nel corso dei decenni non hanno lasciato niente di duraturo. Le differenze si sono accentuate e ciò indica tessuti economici fragili, incapaci di fare sistema e di affrontare periodi di difficoltà sviluppando reti di impresa capaci di proiettarsi su nuovi mercati o di governare processi di ristrutturazione.

Il risultato è che l’occupazione e l’economia di troppe zone del Paese continuano a dipendere dalla spesa pubblica e dalla capacità della Pubblica amministrazione di promuovere investimenti. Queste però sono oggi due nodi scorsoi per l’economia: la prima si trova vincolata nella crescita dalle condizioni nazionali e internazionali; la seconda, in assenza di una riforma che sposi una delegificazione con una rinnovata efficienza dei servizi e della capacità di innovare negli investimenti, rischia di essere la vera zavorra economica proprio laddove dovrebbe esercitare un ruolo propulsivo verso la libertà di iniziativa dei privati e del privato sociale.

Gli squilibri territoriali registrati per il tasso di occupazione complessivo sono ancora più accentuati per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile. Al Nord era al 57,6% ed è calato di meno di un punto percentuale. Nel Sud si partiva da un tasso già particolarmente basso (31,3%) e si è perso un punto pieno. A conferma che l’occupazione femminile ha retto meglio nella crisi (sempre tenendo conto che il dato comprende tutti i tipi di occupazione, anche quella molto parziale) nel Centro Italia registriamo un incremento di oltre un punto.

Con riferimento al quadro complessivo abbiamo un gambero che continua a camminare indietro, ma che con qualche zampa salta in avanti. Fuor di metafora, il Paese ha bisogno di lavorare di più. Cioè più italiani devono essere messi in condizione di partecipare attivamente con il loro lavoro e le loro capacità a una nuova fase di crescita economica. Rispetto agli obiettivi europei serve un 15% in più di occupati per assicurare il recupero necessario ad assorbire la disoccupazione giovanile, stabilizzare la possibilità degli anziani di rimanere attivi e per innalzare l’occupazione femminile che ha retto meglio nella crisi, ma è ancora molto squilibrata territorialmente e comunque bassa complessivamente.





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