Il presidente di Confindustria non era mai stato così chiaro: ha definito “cavolata” il Green Deal. Ma l’Italia è ancora rapita dal sogno di Bruxelles

Per il presidente di Confindustria Orsini il “Green Deal è la più grande cavolata che abbiamo potuto fare”, perché – a differenza di quello che si fa in un’impresa prima del lancio di un prodotto – “in Europa non è stato fatto lo studio di impatto”.

È difficile biasimare il presidente di un’associazione che si trova con i costi dell’energia più alti d’Europa in una fase di guerre commerciali. Non c’è giorno che passa in cui non si racconta di quanto la sopravvivenza di questo o quel distretto industriale sia minacciata da costi dell’energia che lo mettono fuori competizione.



Da due decenni l’Europa vive il sogno della transizione energetica alimentato non solo dal desiderio ambientalista di salvare il pianeta. Oltre a questo c’è un “euro-sovranismo” che sogna di rendersi indipendente dall’importazione di idrocarburi e dalla fatica di avere a che fare con Paesi che non rientrano nell’ideale democratico europeo; sia a est che a sud.



L’Italia, che ha fatto suo questo sogno, ha speso per la transizione, negli ultimi due decenni, cifre che si misurano con l’ordine di grandezza delle centinaia di miliardi di euro; cifre con cui l’Italia si sarebbe potuta permettere una decina di centrali nucleari.

Questo sogno è sopravvissuto nonostante fosse chiaro che, dal basso del fazzoletto di terra che occupa, l’Europa non avrebbe potuto comunque “salvare il pianeta”, essendo causa di una frazione delle emissioni globali. Le produzioni industriali che l’Europa ha perso, anche a causa di regole “green”, sono poi migrate verso Paesi con vincoli ambientali infinitamente più generosi causando quindi più emissioni e più inquinamento.



I limiti delle rinnovabili sono chiari da sempre, ma sono stati sommersi da una narrazione che ha sposato completamente il sogno degli ambientalisti europei e quello dei suoi euro-sovranisti. L’energia rinnovabile non è la stessa del nucleare o delle centrali a gas, perché la prima è intermittente e non è programmabile e la seconda sì. Per rendere l’energia rinnovabile equivalente all’altra servono le batterie, la cui tecnologia oggi non è economica su scala “industriale”, e investimenti colossali in trasmissione elettrica. Equiparare le due energie è come sostenere che mangiare 300 grammi di pasta il lunedì e 200 il venerdì, facendo digiuno nei giorni in mezzo, sia come mangiare 100 grammi al giorno.

Il caso italiano e quello tedesco sono poi di scuola. La produzione rinnovabile in Italia è al Sud, ma le aziende sono al Nord, esattamente come in Germania il vento è nel Mare del Nord ma l’industria e la domanda sono al Sud. Le rinnovabili funzionano in Spagna – che comunque fatica a gestire i loro sbalzi – perché c’è il nucleare e un territorio particolarmente ventoso e soleggiato.

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione UE. Sullo sfondo Roberta Metsola, presidente dell’europarlamento (Ansa)

È inevitabile chiedersi perché solo oggi ci si accorga che le rinnovabili non funzionano in un Paese industrializzato in cui almeno metà del territorio ha poco sole e poco vento. Per due decenni l’Italia ha prodotto l’elettricità con il gas russo in un contesto internazionale di pace e liberi commerci. Per tutti questi anni l’Italia si è potuta permettere gli incentivi alle rinnovabili, in alcuni casi pari a sei o sette volte i prezzi di mercato dell’elettricità, perché il suo sistema economico e energetico permetteva certi investimenti.

Oggi il gas russo non c’è, la geopolitica è un problema e c’è la guerra commerciale. Gli Stati, anche quelli più solidi finanziariamente, non hanno più i soldi per tutto. La Germania, fino a due anni fa uno degli Stati più solidi del globo, deve spendere punti di Pil in difesa e non riesce più a sostenere il suo “sogno green”.

In questi due decenni l’Europa non si è nemmeno accorta o non ha nemmeno considerato che la transizione affondava le proprie radici in Cina e nelle sue catene di fornitura. I nodi oggi vengono al pettine.

Il cambio di narrazione non riflette però una presa di coscienza europea. È invece un processo partito dagli Stati Uniti due anni fa e che è stato alimentato sia dal desiderio americano di reindustrializzarsi, e quindi di abbattere la bolletta energetica, sia di sfruttare gli idrocarburi domestici da vendere all’estero. C’è tanta geopolitica in questo dibattito: le rinnovabili, per esempio, potrebbero ritagliarsi un ruolo in Europa, ma è chiaro che, in questo caso, bisognerebbe rifiutare un rapporto conflittuale con la Cina.

Si potrebbe, infine, concludere che le dichiarazioni di Orsini siano l’emersione di un sentire comune tra i principali protagonisti del settore energetico. In realtà esse sono solo l’allarme del mondo imprenditoriale che è abituato a fare i conti sui costi industriali.

Il mondo energetico italiano, invece, è ancora vittima del sogno ambientalista ed euro-sovranista. Fuori dall’Italia, in Germania piuttosto che in Francia, i protagonisti dell’energia hanno già maturato una coscienza diversa. Il nuovo nome delle energie rinnovabili, per esempio, è “fonti intermittenti”, mentre le altre, incluse gli idrocarburi, sono diventate “fonti flessibili”. Questa rivoluzione linguistica aiuterebbe, ma non ha ancora valicato le Alpi.

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