BLAJ (Romania) — L’ultimo appuntamento nella periferia d’Europa di Francesco è stato quello destinato a ribaltare la narrazione del trentesimo viaggio apostolico del pontefice. In Romania, nella regione della Transilvania, dopo aver beatificato in mattinata sette vescovi ortodossi martiri del comunismo, ha visita il quartiere Barbu Lautaru di Blaj, piccola cittadina cuore della chiesa greco-cattolica romena.
L’ammasso di case irregolari, le stradine strette, le finestre dai colori vivaci e le bandiere con le ruote rosse, delimitano il luogo dove uno dei neo-beati, Ioan Suciu, giocava in strada con i bambini della comunità Rom. Quelli che il “politicamente scorretto” identifica come zingari. Nel paese di Dracula sono numerosissimi, e solo nell’antichissimo borgo che per la sua fedeltà al successore di Pietro e il ruolo giocato nella costruzione dell’identità romena fu soprannominata dal poeta romeno Eminescu “Piccola Roma”, costituiscono il 9% della popolazione. Sono carichi d’oro addosso e in bocca, le donne inguainate in abiti di pizzo bianchi, foulard e rose rosse in braccio, gli uomini con le magliette in jersey strette, gli occhi neri come il carbone, il sorriso pronto.
Anche qui, lontano dai perbenismi borghesi dell’occidente non godono di buona fama. Sono tanti, ma per questo non meno odiati. Un corpo estraneo per il popolo romeno e le sue pur diversificate anime. Ma loro, i Rom, sono troppo. E troppi. Non abitano campi, ma veri e propri quartieri. Si muovono in gruppo, peregrinano per il continente e poi finiscono sempre a girare intorno agli stessi spazi, oggi impreziositi da una parrocchia nuova di zecca.
È lì che ieri ha concluso la sua visita di tre giorni in Romania Papa Francesco. Per sganciare la bomba: un mea culpa con cui ha tirato giù il peso più grosso che aveva sul cuore. Un dolore sordo per le discriminazioni, le segregazioni e i maltrattamenti subiti nei secoli da un popolo che non riesce a stare simpatico a nessuno. “Chiedo perdono” ha detto, “al Signore e a voi” per tutte le volte che vi ho “guardato in maniera sbagliata”, con “lo sguardo di Caino invece che con quello di Abele”. Poche parole per sgretolare il muro di pregiudizi e rancori che da sempre circonda i nomadi di professione e vita, quei giudizi taglienti che accompagnano sguardi e parole che feriscono, seminano odio e creano distanze. Parole e gesti che spesso sono propri anche di chi dovrebbe coltivare l’umano, quei cristiani della domenica che dimenticano in fretta che prima viene la persona e poi le sue azioni, prima il suo cuore e poi l’eredità culturale e le abitudini che non si comprendono appieno.
È vero, è difficile da seguire Francesco su questa via, ma quella che ha indicato è l’unica strada percorribile. Oltre le paure e i sospetti, alla ricerca di ciò che di bello e buono esiste in un popolo, i Rom, che vediamo ostinatamente impegnati a trascinare vite e fatiche che non comprendiamo. Ancora una volta ha scelto il figliol prodigo. E questo farà molto arrabbiare i “figli maggiori”. Forse seguiranno polemiche e distinguo da parte di chi non vuole rinunciare ad una visione del mondo in cui nessuno può reinterpretare la parte affibbiatagli di “cattivo”. Sta a noi scegliere se rimanere umani, camminando insieme al successore di Pietro.