Papa Leone ha ripreso il saluto “O’scià” che fu di Francesco: evoca il soffio, quello Spirito che ridona vita e speranza in un mondo di guerre e ingiustizie

Il saluto siciliano “O‘scià, che Papa Leone XIV ha ripreso e ribadito dal saluto di Papa Francesco nel suo primo viaggio a Lampedusa, evoca il respiro, il soffio, e dunque richiama immediatamente la tradizione biblica in questa epoca buia e tormentata.

Fin dalle prime pagine della Genesi, lo spirito di Dio (in ebraico ruah Elohim) “aleggiava sulle acque” (Gen 1,2), portando ordine e vita là dove regnava il caos. Lo stesso respiro divino è ciò che dà vita all’uomo plasmato dalla polvere: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). E ancora, il profeta Ezechiele, di fronte alla valle di ossa aride, invoca lo Spirito che ridona vita: “Spirito, vieni dai quattro venti, soffia su questi morti, perché rivivano” (Ez 37,9).



Il vento diventa così simbolo del Dio che si dona come Spirito, forza vitale che consola e rigenera ciò che sembrava perduto. Lo stesso linguaggio torna nel Nuovo Testamento: Gesù, parlando a Nicodemo, afferma che “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8). E nel giorno di Pentecoste, “all’improvviso venne dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano” (At 2,2).



In questo orizzonte il legame con la celebre canzone di Bob Dylan, Blowin’ in the Wind, diventa sorprendentemente attuale. Scritta nel 1962, nel pieno delle lotte per i diritti civili e della minaccia nucleare, la canzone non offre risposte definitive, ma formula domande radicali su pace, giustizia e dignità. Le risposte, dice Dylan, “sono nel vento”: non dunque assenti, ma diffuse, vicine, accessibili a chi sappia aprirsi e lasciarsi interpellare.

Quante strade deve percorrere un uomo/ Prima che lo si possa chiamare uomo?/ Sì, e quanti mari deve navigare una bianca colomba/ Prima che possa riposare nella sabbia?/ Sì, e quante volte le palle di cannone dovranno volare/ Prima che siano per sempre bandite?/ La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento/ La risposta sta soffiando nel vento/
Per quanti anni può esistere una montagna/ Prima che sia lavata dal mare?/ Sì, e quanti anni possono vivere alcune persone/ Prima che sia permesso loro di essere libere?/ Sì, e quante volte un uomo può girare la testa/ Fingendo di non vedere?/ La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento/ La risposta sta soffiando nel vento/
Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto/ Prima che possa vedere il cielo?/ Sì, e quante orecchie deve avere un uomo/ Perché possa sentire la gente piangere?/ Sì, e quante morti ci vorranno perchè egli sappia/ Che troppe persone sono morte?/ La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento/ La risposta sta soffiando nel vento



Arrivo di immigrati africani nel porto di Salerno, 2023 (Ansa)

Il vento di Dylan e il vento di Lampedusa si incontrano su un terreno comune: quello di un umanesimo ferito, attraversato da guerre, migrazioni forzate, disuguaglianze e crisi ambientali. La voce del Papa ci ricorda che, là dove la storia sembra segnata da morte e disperazione, lo Spirito non smette di soffiare.

Lampedusa diventa così non solo luogo di tragedia, ma anche icona ecclesiale, laboratorio di accoglienza e frontiera teologica dove il soffio dello Spirito si traduce in gesti concreti di carità. In tempi segnati dalla “globalizzazione dell’indifferenza” e dall’ancor più insidiosa “globalizzazione dell’impotenza”, il vento resta simbolo di resistenza e di speranza.

Papa Leone, interpretando e dando voce al nostro sentire, lo rinnova nel suo messaggio potente non solo a Lampedusa ma a tutti noi: “Cosa posso fare io, davanti a mali così grandi? La globalizzazione dell’impotenza è figlia di una menzogna: che la storia sia sempre andata così, che la storia sia scritta dai vincitori. Allora sembra che noi non possiamo nulla. Invece no: la storia è devastata dai prepotenti, ma è salvata dagli umili, dai giusti, dai martiri, nei quali il bene risplende e l’autentica umanità resiste e si rinnova”.

Lo Spirito che consola e rinnova diventa antidoto alla rassegnazione; il vento delle domande di Dylan, che scuote le coscienze, si trasforma in appello a una responsabilità personale e comunitaria. San Paolo lo ricorda con chiarezza: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché non sappiamo cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26).

In prospettiva teologica, possiamo dire che il vento evoca una pneumatologia della storia: lo Spirito come forza che attraversa i processi umani, custodisce la dignità dei poveri e dischiude possibilità di pace oltre ogni logica di potere.

O’scià” allora non è solo un saluto locale, ma una professione di fede nello Spirito che continua a soffiare; e Blowin’ in the Wind non è solo una canzone di protesta, ma un grido profetico che, pur nato fuori dai confini ecclesiali, si lascia illuminare dal Vangelo come eco dello stesso soffio divino.

In questo incrocio tra musica profetica e parola pastorale si manifesta l’attualità di un compito ecclesiale: ascoltare il vento, discernere lo Spirito, tradurre il suo soffio in culture e pratiche di riconciliazione. Così, nell’epoca delle guerre e delle migrazioni, il vento dello Spirito diventa respiro di fraternità, capace di trasformare la rassegnazione in speranza e di aprire strade di pace là dove sembra impossibile intravederle.

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