“Ho trascorso diversi giorni meravigliosi e affascinanti in compagnia con Bob Dylan. Eravamo solo io e lui a parlare faccia a faccia. Gli ho presentato un copione che ha annotato personalmente. Il motivo per cui Bob si è subito mostrato favorevole alla realizzazione del progetto è che i migliori film biografici non sono mai un racconto intero dalla culla alla tomba: riguardano quasi sempre un momento specifico nella vita di un personaggio. In questo caso ho tentato di analizzare l’atmosfera dei primi anni ’60 a New York”. Così, nel mese di luglio del 2023, James Mangold, il regista di A complete unknown raccontava la genesi del suo film che sta riscuotendo un buon successo di pubblico e critica tanto da entrare prepotentemente nella corsa agli Oscar 2024 in diverse tra le più importanti categorie di premio.
Le sue parole fanno capire quanto nella narrazione cinematografica ci sia di fiction hollywoodiana e quanto, invece, di storia vera di quello che accadde negli anni 1962-1966 quando il “fenomeno” Dylan sbarcò al Greenwich Village newyorkese. “Questo ragazzo di diciassette anni che con soli sedici dollari in tasca si mette a fare l’autostop alla volta della Grande Mela, va dal cantautore Woody Guthrie che è in ospedale, per una grave malattia ai nervi e gli canta una canzone scritta per lui”. Sono sempre parole di Mangold.
Ed effettivamente, dallo schermo gli spettatori sono subito coinvolti nei primi passi di un artista che ha segnato la musica del secondo Novecento, prima in America e poi in tutto il mondo, messi subito davanti a un uomo misterioso: un uomo difficile da decifrare, se non nella sua arte compositiva, dallo sguardo enigmatico e “sconosciuto” (come recita il titolo del film che riprende un verso di “Like a Rolling Stone”) a chi gli sta intorno (amanti, mentori e tutor discografici). ma addirittura sconosciuto a se stesso, nel rincorrere in maniera maniacale quasi come fosse affetto da una forma di autismo l’ispirazione per le sue canzoni e nel rifiuto di vedere considerare la sua creatività racchiusa in una etichetta e data in pasto alle folle di fans sempre più adoranti e invasive.
“È così che questo giovane vagabondo del Minnesota, ora dotato di un nuovo nome e di una nuova visione della vita diventa una star. In pochi mesi firma per la più grande casa discografica del mondo e tre anni dopo, registra vendite record diventando a tutti gli effetti un rivale dei Beatles”. Questa è la storia pubblica che Mangold segue come traccia. Ma la realtà umana e psicologica che il film racconta è molto più complessa, e pone domande cruciali: Bob Dylan, è il menestrello folk (anche se lui nega l’etichetta) icona dell’America libertaria , della contestazione delle nuove generazioni pre sessantottine, dichiaratamente contro la guerra nel Vietnam, scossa dalla crisi dei missili a Cuba e dall’attentato mortale di Dallas, o è tutta una costruzione mediatica verso un’artista al quale poco o nulla interessavano i movimenti popolari della sinistra liberal e a cui interessava solo che le sue canzoni potessero essere conosciute al grande pubblico? È quest’ultima impressione che il racconto cinematografico ci porta a credere.
Ed è a questo punto, quasi a conferma, ci vengono in soccorso le parole delle interviste, tra le tante, che Bob Dylan rilasciò negli anni raccontati dal film: “Voglio solo continuare a cantare e scrivere canzoni. Non mi interessa fare un milione di dollari. Cosa farei se avessi un sacco di soldi? Mi comprerei un paio di motociclette, qualche condizionatore e quattro o cinque divani” (dal testo all’interno del disco “Bob Dylan”, 1962).
“In realtà non mi ritengo proprio un cantante folk e non canto solo folk. Tanta gente è tutta musica folk! Non pretendo di chiamarle canzoni folk o roba del genere. Per me sono pezzi contemporanei. Tanta gente dipinge quando ha qualcosa da dire, altri scrivono. Io invece scrivo canzoni, ma è lo stesso” (siamo all’inizio del 1962 in un intervista radiofonica a New York).
“Suonavo la chitarra già da quando avevo dieci anni, perciò mi sono detto, bè, forse è quello che so fare. Forse è il mio piccolo dono: c’è chi sa fare torte, chi sa tagliare gli alberi. Nessuno ha diritto di dire che certi doni sono migliori di altri. Per me questo è il mio dono” (intervista radiofonica, 1963).
“Immagino di inventarle o di prenderle da qualche parte ma le canzoni sono già lì, prima che arrivi. È come se io mi limitassi a prenderle ad annotarle con una matita. Non saprei come altro dirlo” (maggio 1962, da una conversazione televisiva mai trasmessa con il suo “mentore” Pete Seeger).
“Non faccio cose come protestare contro la guerra in Vietnam. Chi siamo noi per dire di no a qualcuno che vuole combattere? Dobbiamo imparare a prenderci cura di noi” (intervista all’Atlanta Journal, 1965).
Ed è proprio nel 1965 che Dylan prepara la ”sua” rivoluzione musicale: l’acustico diventa elettrico, il folk diventa “rock”. Più che una rivoluzione è l’approdo ad una sfida tignosa verso chi lo voleva trattenere dentro i recinti della musica tradizionale dell’ America rurale. Avviene tutto nel Festival di Newport, non senza vivaci polemiche e contrasti nel pubblico e nel backstage.
E Dylan commenterà così, sempre nell’autunno di quell’anno a Playboy: “Per quanto riguarda la questione folk e folk-rock non mi importa quali stupidi nomi si inventa la gente per la musica. La musica tradizionale viene da leggende, dalla Bibbia, dalle pestilenze: nessuno può uccidere la musica tradizionale. Verrebbe da pensare che chi canta la musica tradizionale possa capire, dalle proprie canzoni che il mistero, il puro e semplice mistero sia un fatto tradizionale. Io ascolto le antiche canzoni popolari, ma non andrei ad una festa per ascoltarle. Lo sanno tutti che non sono un cantante folk. A Newport sono rimasto abbastanza sbalordito, ma non posso criticarli per essere venuti lì e avermi fischiato. Però avrebbero potuto essere meno insistenti e più silenziosi. (…) Niente è più come prima, ormai. La primavera scorsa ero sul punto di mollare, ero davvero stanco e, per come stavano andando le cose trovavo tutto molto noioso. Insomma stavo suonando un sacco di brani che non mi andava di suonare, cantando parole che non mi andava di cantare. (…) Ma ‘Like a Rolling Stone’ ha cambiato tutto: dopo quella, non mi importava più di scrivere libri, poesie o chissà che. (…) Al contrario di quello che pensano certi individui bacati, non è che ora suoni con una band per ragioni di propaganda o per motivi commerciali. È solo che le mie canzoni sono come quadri e quel gruppo ha un sound più adatto per rappresentarle”.
E al diavolo anche le canzoni con “il messaggio di protesta”: “Non è inutile dedicarsi alla pace e all’uguaglianza razziale, è inutile dedicarsi a una causa! È davvero da ignoranti. Dire la ‘causa della pace’ è come dire ‘un tocco di burro’. Insomma, come si può stare ad ascoltare qualcuno che non è nemmeno in grado di capire cos’è che fa soffrire gli altri e vogliono cercare di cambiare il mondo?”.
Poi arriverà lo schianto in moto, la lunga convalescenza, l’”insopportabile” Woodstock, il ritorno alle origini della musica “roots” con le registrazioni della cantina con The Band, la conversione al cristianesimo, l’incontro con Papa Giovanni Paolo II a Bologna, le (discutibili) cover di Frank Sinatra, Il premio Nobel per la Letteratura, le visionarietà apocalittiche degli ultimi album, la pubblicazione di un poderoso volume su “La filosofia della canzone moderna”.
Giusto per rimanere “completamente sconosciuto” agli altri e anche un po’ a se stesso.
Per le citazioni nei virgolettati di Dylan l’autore di questo articolo si è avvalso della lettura di “Like a Rolling Stone. Interviste. A cura di Jeff Burger. Traduzione di Camilla Pieretti”, ed. Il Saggiatore, 2021.
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