PARITÀ LINGUISTICA DI GENERE, NO DEL SENATO/ A chi giova cambiare la grammatica?

- Gianfranco Lauretano

Il Senato boccia l'emendamento M5s per introdurre la parità di genere nelle comunicazioni istituzionali. Una vittoria del buon senso

senato aula legge 1 lapresse1280 640x300 In aula al Senato (LaPresse)

Poi si lamentano che la gente non va più a votare. Mercoledì 27 luglio il Senato ha utilizzato il suo tempo per votare un emendamento della senatrice Alessandra Maiorino (Movimento 5 Stelle) per indurre un linguaggio definito “più inclusivo” nelle sue comunicazioni istituzionali.

Ciò significa, ad esempio, che si sarebbe dovuto scrivere “i senatori e le senatrici presenti” e non più “i senatori presenti”, con buona pace per la grammatica italiana che prevede l’uso del maschile anche come neutro, il cosiddetto maschile “sovraesteso”, per cui, ad esempio, se dico che tutti gli uomini della terra hanno uguali diritti, intendo dire che gli stessi diritti sono detenuti anche dalle donne.

L’emendamento, votato a scrutinio segreto, è stato bocciato e da quel momento apriti cielo: associazioni di tutti i generi a gridare allo scandalo, ad accusare di sessismo chi ha votato contro, dal che ci si chiede cosa si vota a fare se poi esiste un unico esito accettabile. Una mera perdita di tempo, come se non fossimo nel pieno di una crisi drammatica, sociale, economica e globale, con un autunno che a causa del combinato di guerra e pandemia si annuncia terribile per i milioni di italiani diventati in questi mesi ancora più poveri, e per la società e il mondo del lavoro che sono sotto massacro. Il modo peggiore per stimolare la gente ad andare al voto tra meno di due mesi.

Ma proviamo a far finta di prendere seriamente questa pagliacciata. Chi ha proposto l’emendamento forse non sa di essersi posto sulla scia di una ideologia precisa, di matrice anglosassone, liberal, radical-chic, che neppure nella sua prima patria, l’America, ha ormai più la maggioranza. La grammatica è la grammatica e non vuol dire che coloro che la usano bene siano dei razzisti. Io stesso che la insegno e continuo ad insegnarla così com’è, cioè col maschile sovraesteso, chiedo la cortesia di non essere tacciato di sessismo. Mi suonano ridicoli persino certi termini ormai assunti dalla maggioranza, come sindaca, ministra o assessora, quest’ultimo davvero esilarante, in questo d’accordo con l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la cui autorevolezza riconosciuta è assai superiore a quella di certi promotori di emendamenti attuali. E d’accordo pure con l’attuale seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati che, appunto, nei suoi comunicati ufficiali si firma “il presidente del Senato”.

L’intervento più sensato appare quello di Lucio Malan, di Fratelli d’Italia, il quale ha affermato che “l’evoluzione del linguaggio non si fa per legge o per regolamento, ma attraverso l’evoluzione del modo di pensare e parlare dei popoli”. Accodarsi a un’ideologia linguistico-politica di origine straniera genera mostri, come le solite accuse esagerate di fascismo, sessismo, razzismo che fioccano su chi non la pensa in quel modo, anche solo per rispetto della grammatica. Volendo rovesciare le accuse e mantenere lo stesso tono iperbolico ed esagerato, si potrebbe ricordare ai pasdaran dell’artificiosa parità sesso-grammaticale la neolingua di George Orwell che nel romanzo 1984, come tutti sanno (o forse no) aveva previsto che la falsa democrazia del futuro sarebbe intervenuta per legge, in modo dispotico, sulle parole e sulla grammatica di tutti. E chissà, sarà forse per questo che in certe facoltà letterarie anglosassoni, proprio di quei Paesi dove la riforma politica della grammatica è iniziata, Orwell è stato bandito dai corsi di letteratura

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