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Home » Politica » PASSAPORTO VACCINALE/ Un mina “buona” che mette in crisi i trattati europei

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PASSAPORTO VACCINALE/ Un mina “buona” che mette in crisi i trattati europei

Lorenza Violini
Pubblicato 20 Marzo 2021
Obbligo vaccini per sanitari

(LaPresse)

L'Ue ha presentato mercoledì scorso il "Digital green certificate", una sorta di carta verde che certifica l'avvenuta vaccinazione. Tanti i problemi aperti

Non è di poco conto la decisione della Commissione europea di presentare un disegno di regolamento in materia di passaporti vaccinali. Tale energica scelta si pone al crocevia di innumerevoli problemi giuridici – ma non solo – tutti perlopiù irrisolti.

Il primo riguarda i limiti alla libertà di circolazione che, come è noto, è uno dei pilastri della costruzione europea in tutte le sue articolazioni: essa abbraccia infatti la libera circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e di servizi, cosicché tutta l’azione della Ue risulta abbracciata da questo complesso insieme di libertà, come si evince dalla semplice lettura dei Trattati. Se di libera circolazione si tratta, come condizionare sulla base di una semplice “certificazione” la facoltà dei cittadini europei di muoversi da uno Stato membro all’altro? Quali interessi superiori alla libertà in esame potrebbero giustificare tale scelta? L’emergenza economica che si profila può offrire utile giustificazione ad una così pesante limitazione?


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La risposta a questo quesito esige, prima di ogni discussione giuridica, che ciascuno di noi, in quanto cittadino, si interroghi sulle sue preferenze in questo momento: se accettare, almeno temporaneamente, che le necessità di rilanciare l’economia prevalgano sulla propria libertà (di viaggiare, certo, ma anche di vaccinarsi o di sottoporsi al controllo sulla propria salute che autorità pubbliche “certificano”, tra l’altro con un certo margine di problematicità) o se il principio-libertà sia un bene intangibile, nemmeno a fronte delle più problematiche situazioni che si prospettano (per il turismo, ad esempio).


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E, in seconda battuta, la risposta spetta poi agli Stati membri i quali – come si sente dire – saranno poi liberi di attribuire al “certificato” le conseguenze da essi ritenute più opportune, con la conseguenza dell’insorgere delle più svariate diversità tra Stato a Stato e all’interno dello Stato, tra le sue diverse aree, che si articolano in modo ampiamente differenziato visto che gli Stati membri sono centralizzati, regionali o federali (con tutte le varianti che questa sommaria classificazione alberga al suo interno). Ma questa, in ultima analisi, è il problema dell’Europa, dove tutti siamo “uniti nella diversità”.


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Secondo problema, di non meno rilevante peso: la presenza di un “certificato” non può essere forse visto come una forma di pressione sui cittadini a farsi vaccinare, senza che il relativo obbligo sia sancito con legge, ex art. 32 Cost.? Potrebbe un regolamento europeo sostituire, almeno di fatto, il vincolo a prendere tale decisione con una pronuncia del Parlamento nazionale, cui spetta per Costituzione decidere in materia? Si potrebbe avanzare l’ipotesi che la scelta di lasciare che sia l’Europa a decidere in merito, pur indirettamente (ché non vi è dubbio che un eventuale certificato verde sia un modo indiretto di spingere verso la vaccinazione), faccia comodo agli Stati che non gradiscono certo, a motivo del consenso che vige in tema di vaccini (e che la scelta di sospendere pro tempore quello di AstraZeneca non ha certo favorito), di decidere in merito.

Segue il non meno problematico rispetto della privacy da parte di simile scelta. Qui tuttavia non è utile fare sforzi argomentativi: ormai la questione del rispetto della privacy è diventata una sorta di araba fenice, rispetto invocato in moltissime circostanze e senz’altro utile a proteggere un bene così rilevante ma incistato dentro un insieme di regole che ne rendono assai complessa l’attuazione. E, infatti, sia la Commissione europea per bocca della sua presidente sia le autorità nazionali ne stanno parlando, la prima garantendo che la privacy sarà rispettata, che non vi è alcuna intenzione di creare discriminazioni tra chi si vaccina e chi no, le seconde già avanzando dubbi molto pesanti su quali siano le condizioni che consentono che la privacy sia davvero rispettata. Quanto alla discriminazione, al di là delle buone intenzioni della Commissione, vi è senz’altro il problema di chi non è stato vaccinato perché non è ancora giunto il suo turno, mancanza di vaccinazione che non è parificabile al semplice e temporaneo tampone negativo.

Con un nota bene conclusivo: se si va verso l’obbligo vaccinale, espresso o surrettizio, in caso di eventi avversi provenienti dalla vaccinazione, chi sarà chiamato a risarcire i danni? Anche questa questione, non secondaria per il principio-libertà del cittadino, è ancora tutta da risolvere. Non a caso dopo lo stop ad AstraZeneca, adesso, nel consenso informato per chi vi si sottopone, vi è uno warning anche rispetto al rischio (accettato) di trombosi cerebrale. 

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