Nel novembre di 50 anni fa uscì Horses, il disco d'esordio di Patti Smith che diede il via alla rivoluzione punk
“Jesus died for somebody’s sins, but not mine” è la frase che apre il disco e che lo consegna all’eternità, irriverente e rivoluzionaria. Lei dirà sempre che voleva significare solo assumersi le proprie responsabilità di artista, non c’era niente di blasfemo.
Con questa frase — tagliente come una lama e solenne come un giuramento — nasce Horses, uno dei dischi più rivoluzionari del Novecento. È il battesimo di Patti Smith come poetessa elettrica, sciamana urbana e profeta del punk.
Registrato sotto la produzione visionaria di John Cale (ex Velvet Underground), Horses è un rito, una liturgia rock che spezza le regole e le riscrive a colpi di parola e distorsione.
In un momento storico in cui la musica stava morendo per auto compiacimento e narcisismo, in cui senza dosi da elefante di cocaina sembrava che nessuno riuscisse più a registrare un disco e dove se non eri un mostro di bravura tecnica non ti facevano neanche entrare in uno studio, in una stradina oscura, puzzolente e pericolosa di New York la musica rock rinasce dalle proprie ceneri.
Tutto sta accadendo al CBGB’s, il locale culla del proto-punk newyorchese. Television, Ramones, Talking Heads: tutti cercano un suono nuovo, brutale, essenziale. Patti Smith arriva da un’altra dimensione — non dal garage, ma dalla pagina scritta. È una poetessa beat, una discepola di Rimbaud, Ginsberg e Dylan, con il fuoco del rock’n’roll dentro. Sono anni che sopravvive a stento insieme al suo compagno-amico, il fotografo Robert Mapplethorne, recitando quando le riesce poesie visionarie e oscure, a volte accompagnata da un chitarrista allampanato, Lenny Kaye. Ma è sempre più convinta di quello che vuole fare: ridare alla musica rock la sua dignità.
Quando finalmente nel corso del 1975 entra in studio, non vuole fare un “disco”. Vuole catturare un’esplosione. E ci riesce.
Registrato sotto la produzione visionaria di John Cale (ex Velvet Underground), Horses è un rito, una liturgia rock che spezza le regole e le riscrive a colpi di parola e distorsione.
Gloria: In Excelsis Deo prende in mano il vecchio brano dei Them di Van Morrison e lo trasforma in una apocalisse punk. È un inizio che è una dichiarazione di guerra. Smith trasforma il classico dei Them in una preghiera blasfema e liberatoria. “Jesus died for somebody’s sins, but not mine” non è solo una frase: è la fondazione di un’epica personale, femminile e mistica insieme. La sua voce — metà sermone, metà orgasmo — si libra sopra un vortice di chitarre sgangherate. È rock come redenzione.

Il disco nasce da solo, frutto di improvvisazioni da parte di qualcuno, lei e i suoi musicisti, che non hanno vie d’uscita e che domani potrebbero essere scomparsi.
Birdland sono nove minuti di pura trance. Smith declama più che cantare, improvvisa come una sacerdotessa jazz. Il testo — ispirato a una visione mistica e alla morte del padre — è un flusso di coscienza degno di Kerouac.
La musica cresce come una tempesta: batteria, piano e voce diventano una sola corrente elettrica. È il cuore pulsante del disco, un poema sonoro. Con Free Money emerge la rabbia sociale. Patti canta il sogno della madre che vuole “soldi gratis” per sopravvivere. Ma la canzone esplode in un delirio di libertà e desiderio.
È proto-punk, ma con un’anima poetica e spirituale che lo rende eterno.
Scritta con Tom Verlaine leader dei Television, Break it up è forse la canzone più “rock” del disco. Patti canta un amore imprigionato, un corpo che vuole spezzare le proprie catene. La metafora della statua (il busto di Jim Morrison sulla sua tomba, visto a Parigi anni prima) che prende vita è pura mitologia rock.
Con Land: Horses / Land of a Thousand Dances / La Mer (de) si apre il cuore selvaggio del disco: nove minuti di improvvisazione, erotismo e caos rituale. Patti evoca Johnny, un ragazzo che vive e muore in un sogno psichedelico. Le parole si spezzano, si trasformano in mantra. Il rock diventa poesia, la poesia diventa possessione. È l’origine del punk come gesto poetico, non come rumore.
Elegie è un epilogo funebre e dolcissimo, dedicato a Jimi Hendrix, morto cinque anni prima. Registrato agli Electric Lady Studios, che Hendrix stesso aveva fondato, è un addio che suona come una benedizione.
Horses è una metamorfosi: del corpo, della voce, del genere. Patti Smith abbatte ogni confine tra maschile e femminile, tra rock e poesia, tra sacro e profano. Il suo linguaggio è viscerale e visionario: parla di libertà sessuale, spirituale, artistica. Non è “punk” nel senso classico: è punk perché è pura autenticità, perché non chiede permesso a nessuno.
L’impatto di Horses sarà incalcolabile. Ha aperto la strada a intere generazioni di artisti: da Siouxsie Sioux a PJ Harvey, da Michael Stipe a Courtney Love, fino a Nick Cave e Thurston Moore. È stato il primo disco che ha dimostrato che la poesia può essere elettrica e che il rock può essere un linguaggio letterario senza perdere la sua furia. Rolling Stone l’ha giustamente definito uno dei “più grandi album di debutto di tutti i tempi”. Ma è più di un debutto: è un manifesto spirituale.
Horses non è solo un disco: è un’invocazione, una porta aperta sul mistero. Ascoltarlo oggi è come assistere a una nascita — quella di una nuova lingua, di una nuova libertà. È il suono del momento in cui la poesia mette le mani nel fango del rock e ne trae qualcosa di divino.
Il 10 ottobre Patti Smith sarà a Bergamo per l’unica tappa di un tour che celebra proprio i 50 anni del disco mentre una nuova edizione con molti inediti dell’album arriverà nei negozi.
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