Elly Schlein ha deciso di mobilitare il Pd a sostegno dei referendum promossi dalla Cgil contro il Jobs Act
Per il viaggio inaugurale il Titanic partì in direzione di New York da Southampton (Inghilterra) l’11 aprile 1912 e nello stesso giorno fece tappa prima a Cherbourg, in Francia, e poi a Cobh (co. Cork), in Irlanda, prima di lasciare l’Europa e navigare in mare aperto nell’Oceano Atlantico.
Pochi giorni dopo, il 14 aprile 1912, dopo aver urtato un iceberg alle 23:40 la nave affondò in 2 ore e 40 minuti spezzandosi in due tronconi. Dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo cambiamento come una premonizione che la nave fosse stregata.
Mettiamo il caso – a favor di metafora – che al momento della partenza un passeggero non fosse presente all’imbarco a causa di un ritardo negli spostamenti, ma che avesse fatto il diavolo a quattro sul molo di Southampton per noleggiare un rimorchiatore veloce che gli facesse raggiungere la nave mentre stava ancora compiendo le manovre per prendere il largo e che fosse riuscito nell’intento di salire a bordo.
Dopo il naufragio si sarebbe parlato sui quotidiani di tutto il mondo del suo tragico destino, di come la sua insistenza sarebbe divenuta un cammino inconsapevole incontro alla morte. Salvo scoprire, poi, da famigliari e amici che in realtà il nostro poche sere prima aveva sognato di un gigantesco iceberg che avrebbe urtato la nave condannandola senza vie di scampo al naufragio.
Dove ci conduce questa metafora? Al netto degli aspetti tragici (che non si verificheranno) il Titanic è rappresentato dalla mobilitazione e dall’organizzazione per i quattro referendum sul lavoro promossi dalla Cgil sui quali si voterà in una domenica e un lunedì fissati tra il 15 aprile e il 15 giugno (ai quali si aggiunge anche il quesito sulla cittadinanza). Mentre il passeggero ritardatario che si affanna a salire a bordo nonostante il fosco presentimento non è altri che il Pd di Elly Schlein.
Con un aggravante: la Segretaria dem – se conserva un barlume di senso della realtà – sa di impegnare il suo partito in una battaglia persa in partenza, perché il referendum non riuscirà a conseguire il numero di voti necessari per il quorum.
Peraltro, non si capisce per quale motivo il Pd che – a causa di dissensi interni – non si era impegnato ufficialmente nella raccolta delle firme, abbia poi deciso di imbarcarsi a cose fatte, in un contesto diverso da quello iniziale, quando l’attacco per via referendaria al Governo e alla maggioranza sarebbe stato assai più consistente per via del quesito sull’autonomia differenziata, prima che la Consulta lo facesse uscire di scena.
La vicenda, poi, è tanto più singolare per altri motivi. Mentre la Cgil è sempre stata contraria al Jobs Act, anche al momento della sua approvazione, il Pd era al Governo e deteneva la presidenza del Consiglio con Matteo Renzi.
Tanto che la formula che sbloccò il dibattito sul licenziamento per motivi oggettivi trovò una sistemazione definita in un punto di un documento approvato dalla direzione del Pd che recitava: “Una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie“.
Anche la materia del contratto a termine conobbe un’ampia flessibilità (fino a 36 mesi senza necessità di indicare le causali) grazie al c.d. decreto Poletti (ministro del lavoro di Renzi) che precedette la complessa innovazione legislativa connessa al Jobs Act che consisteva in una legge delega da cui derivarono ben otto decreti legislativi (l’istituzione del contratto a tutele crescenti con dlgs n. 23/2015 era solo uno di questi). Ecco perché l’insistenza sul termine Jobs Act ha un obiettivo propagandistico, perché il referendum abrogativo riguarda solo un provvedimento tra quelli riconducibili all’intero pacchetto.
Come ha poi sottolineato la Corte nell’ammettere il quesito, il dlgs n. 23 è stato parecchio demolito nei suoi principali aspetti innovativi dalla giurisprudenza costituzionale, tanto da rendere dubbia l’utilità dell’abrogazione ai fini di una maggiore tutela dei lavoratori.
L’eventuale abrogazione di tali norme, attualmente applicabili ai rapporti di lavoro costituiti dopo il 7 marzo 2015, non ripristinerebbe affatto la reintegrazione nel posto di lavoro come sanzione standard per i licenziamenti invalidi (come stabilito dallo storico articolo 18 della legge n. 300/1970);
l’introduzione di un’indennità risarcitoria in caso di invalidità dei licenziamenti era infatti già stata introdotta dalla riforma Fornero, applicabile ai rapporti di lavoro più vecchi, che limita le ipotesi di reintegrazione (oltre che nei già citati casi di nullità) ai casi di insussistenza del fatto su cui il licenziamento si basa, o qualora il licenziamento sia originato da comportamenti che la contrattazione collettiva considera punibili con sanzioni meno gravi.
Inoltre, come ha evidenziato Attilio Pavone sul Sole 24 Ore, vi sarebbero – paradossalmente – degli effetti negativi sottolineati come tali anche nella sentenza della Consulta che pure ha ammesso il quesito.
Infatti, se si passa a esaminare l’entità dei possibili risarcimenti per un licenziamento ingiusto, l’eventuale successo del referendum peggiorerebbe il meccanismo automatico delle “tutele crescenti” che era stato dapprima corretto al rialzo per legge dal “Decreto Dignità”, e successivamente cancellato dalla Corte Costituzionale, con il risultato che oggi il risarcimento può variare da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità, non più in base a una formula, ma con scelta discrezionale da parte del Giudice, che di fatto è spesso basata anche sulla durata del rapporto.
Diversamente, i risarcimenti previsti dalla Legge Fornero prevedono normalmente un risarcimento ricompreso fra 12 e 24 mensilità, discrezionale ma sempre da motivare sulla base di durata del rapporto e dimensioni del datore di lavoro.
In definitiva, l’eventuale successo del primo dei referendum in questione potrebbe perfino peggiorare le aspettative risarcitorie dei lavoratori con maggiore anzianità aziendale.
Il secondo referendum abrogativo, che intende intervenire sulla legge fondamentale in tema di licenziamenti individuali, solo marginalmente toccata dal Jobs Act, propone invece di sopprimere il più basso limite risarcitorio massimo (6 mesi) applicabile ai licenziamenti nelle imprese che occupano fino a 15 dipendenti nell’unità produttiva del dipendente licenziato, che sono escluse dalle regole risarcitorie sopra accennate.
Se il referendum avesse successo, si tratterebbe di un cambiamento non irrilevante, ma neanche in questo caso “rivoluzionario”: va infatti ricordato che già oggi (per le imprese più grandi fra le “piccole”) il limite massimo può, per i lavoratori con anzianità superiore a 10 o 20 anni, essere elevato rispettivamente fino a 10 o fino a 14 mensilità.
In definitiva, l’ipotesi di controriforma per via referendaria delle tutele in materia di licenziamenti – che comunque dovrà superare il non facile ostacolo del quorum dei votanti – non sarebbe una grande rivoluzione. Il Jobs Act, che ha avuto il merito di tipizzare e rendere prevedibili i risarcimenti per i licenziamenti illegittimi, è stato sul punto già in parte smantellato, e l’annoso tema della produttività delle imprese italiane (con annessa possibilità di aumento dei salari) appare oggi più urgente.
Ma Landini e Schlein vogliono vendicarsi di Matteo Renzi, a qualunque costo. Peraltro sotto agli occhi di un Governo e di una maggioranza a cui del Jobs Act non interessa quasi nulla visto che, a suo tempo, erano all’opposizione.
In sostanza, il referendum si risolverà in una caccia all’uomo nei confronti dei superstiti dei riformisti dem che presero parte all’azione di rinnovamento del diritto del lavoro voluta da Matteo Renzi in collaborazione con un gruppo di intellettuali rigorosamente dem, ma privi della patente che ormai viene rilasciata soltanto da Landini.
Poi, se si osserva la storia della sinistra dell’ultimo secolo, ci si accorge che i peggiori nemici di talune fazioni appartengono ad altre dello stesso partito.
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