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Home » Esteri » Medio Oriente » PIANO USA PER GAZA/ “È un protettorato modello Kosovo, Hamas al bivio e Netanyahu potrebbe smentirsi”

  • Medio Oriente
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PIANO USA PER GAZA/ “È un protettorato modello Kosovo, Hamas al bivio e Netanyahu potrebbe smentirsi”

Int. Marco Di Liddo
Pubblicato 1 Ottobre 2025
Il premier di Israele Benjamin Netanyahu (c) mentre parla con il ministro Bezalel Smotrich (Ansa)

Il premier di Israele Benjamin Netanyahu (c) mentre parla con il ministro Bezalel Smotrich (Ansa)

Hamas deve decidere sul piano Trump per Gaza: potrebbe farlo saltare. Per la Striscia pronto un modello kosovaro sotto l'egida di USA e Paesi mediorientali

Cessate il fuoco, liberazione degli ostaggi, Striscia gestita da tecnici palestinesi controllati da un Consiglio di pace presieduto da Trump. La strada per la pace a Gaza è segnata, almeno così sembra. Ma bisogna vedere cosa deciderà Hamas nei tre-quattro giorni concessi dal presidente USA per pronunciarsi sul suo piano: la via potrebbe anche essere quella del martirio e quindi della prosecuzione della guerra.


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Intanto, racconta Marco Di Liddo, direttore del CeSI, Centro Studi Internazionali, Gaza diventa una sorta di protettorato, senza che si sappia di preciso che fine farà la teoria dei due Stati. Qatar e Turchia fanno pressioni perché Hamas accetti l’accordo, perché entrambi hanno interessi a sfruttare il gas nel mare davanti alla Striscia e ad affermare la loro leadership in Medio Oriente.


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Resta da vedere cosa faranno la destra religiosa israeliana e lo stesso Netanyahu, al quale il presidente israeliano Herzog potrebbe concedere la grazia, liberandolo dai processi che in caso di fine della guerra ripartirebbero nei suoi confronti. Le incognite sul piano Trump sono ancora molte. Intano un funzionario Hamas avrebbe detto alla BBC che il piano del presidente USA ignora gli interessi del popolo palestinese.

Il piano di Trump è convincente?

È un piano che riesce ad accontentare le richieste di tutti, di Israele e del popolo palestinese. È ovvio, però, che qualcuno deve perdere, perché gli accordi nei quali vincono tutti sono rarissimi in politica internazionale, per non dire impossibili. Non è un gioco a somma zero.


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Chi perde, allora, in questo caso? E cosa perde?

Sulla carta a perdere sono in due e mezzo. Perde Hamas, perché sostanzialmente gli viene chiesto di rilasciare gli ostaggi, di posare le armi e di smobilitare, insomma, di sparire. Perde l’estrema destra israeliana, che deve accantonare per il momento, e sottolineo per il momento, il sogno del Grande Israele dal fiume al mare. E c’è il rischio che perda anche un po’ Netanyahu, perché una volta che gli ostaggi torneranno a casa e i cannoni taceranno, la vita del Paese ricomincerà, comprese le sue beghe giudiziarie.

La gestione della Striscia prevede la presenza di un comitato palestinese tecnico e apolitico e di un Consiglio di pace presieduto da Trump e da altri capi di Stato, probabilmente arabi, in cui avrà un ruolo anche Tony Blair. Cosa diventa la Palestina?

Torna ad essere un protettorato, almeno nel periodo in cui si cerca di stabilizzare Gaza. Il piano è questo: la Striscia deve tornare a vivere senza che Hamas o l’ANP, che ha ancora questioni da risolvere con il governo israeliano, vadano a governare a Gaza. Quindi si deve costruire un sistema terzo, che prevede un esecutivo tecnico che si occupi degli affari correnti, supervisionato da un comitato politico che deve fare in modo che gli interessi dei maggiori attori internazionali siano tutelati.

A chi altro toccherà occuparsi della gestione di Gaza durante la ricostruzione?

Palestinesi cercano riparo durante uno Strike israeliano su Gaza City, 27 settembre 2025 (Ansa)

Un punto interessante è quello del controllo del disarmo, che viene affidato a una missione internazionale, multinazionale, con la presenza di attori europei e arabi, responsabili anche dell’addestramento della polizia palestinese, per creare non un esercito ma una forza che mantenga l’ordine pubblico. È un po’ il modello kosovaro, anche se restano ancora tante sfide aperte. Per esempio, non si parla di riconoscimento dello Stato palestinese.

Su questo tema Trump sembra possibilista, mentre Netanyahu ha già ribadito il suo no deciso. Cosa succederà?

Trump non può mettere sul piatto tutto e subito, deve fare qualche concessione al fronte israeliano. Per adesso dice che si lavorerà, con calma, alla realizzazione dello Stato palestinese, che molti Paesi europei hanno riconosciuto, anche se non si capisce con quali confini e come. Per ora non si parla neanche di Cisgiordania, dei coloni e neppure del diritto al ritorno dei palestinesi.

Perché Netanyahu ha detto sì?

Lo ha fatto per due motivi. Il primo perché così raggiunge l’obiettivo che aveva dichiarato, cioè la distruzione di Hamas e il ritorno a casa degli ostaggi. Inoltre pare che il presidente Herzog abbia aperto alla possibilità di graziarlo rispetto ai suoi procedimenti giudiziari, il che gli permetterebbe di ricandidarsi e di non sparire politicamente.

Trump ha dato tre o quattro giorni ad Hamas per decidere e intanto l’organizzazione palestinese si incontra con Qatar e Turchia. Perché questi Paesi si sono prestati a fare pressione affinché Hamas accetti l’accordo?

Perché vogliono passare all’incasso. Se viene creato un gabinetto tecnocratico che può firmare degli accordi internazionali, davanti a Gaza ci sono sempre i giacimenti di gas da sfruttare. Una cosa è agire in questo campo senza nessuno alle spalle, altra cosa farlo con la marina turca e i soldi di Doha, oltre che con la tecnologia qatarina. Il loro interesse sta in questo. Il Qatar, in questo modo, pianterebbe una bandiera in un’area cruciale del Medio Oriente.

Cruciale sotto quale punto di vista?

Basta ricordare i vecchi progetti di pipeline per portare il gas qatarino in Medio Oriente: devono passare lì vicino, è un collegamento lungo, tortuoso, pieno di insidie, che deve attraversare Paesi particolarmente turbolenti, però Roma non fu costruita in un giorno: si inizia a pacificare una zona per poi passare ad altre. La Turchia, invece, vuole accreditarsi come attore cruciale all’interno del mondo arabo-sunnita, magari creando una nuova realtà palestinese che si rifaccia all’islamismo politico senza guardare alle fazioni estreme di derivazione medio-orientale, ma prendendo come modello quello dell’AKP turco (il partito di Erdogan, nda): un islamismo conservatore privato della componente di lotta politica violenta.

Alla fine Hamas accetterà questo accordo?

Se Hamas molla e se ne va in esilio ha due strade: finire in Giordania (e in Libano) a radicalizzare la diaspora palestinese dei campi profughi, o scegliere la Cisgiordania per fare proselitismo lì. Oppure sparire. Il patto che viene proposto ai miliziani di Hamas dice: “Smobilitate e deponete le armi e in cambio finirà il massacro del popolo palestinese”. Altri hanno seguito questa logica: il PKK (i curdi di Ocalan, nda) ha deposto le armi, ma è un’organizzazione marxista-leninista, con un approccio laico. Hamas, invece, è un’organizzazione religiosa, per cui il martirio è un’opzione concreta: potrebbero scegliere questa strada.

Quale delle due opzioni sembra prevalere?

Non lo possiamo sapere con certezza, perché non abbiamo il metro del dibattito interno all’organizzazione, spaccata tra chi vive in esilio nei resort a 5 stelle tra Turchia e Qatar e un’ala militante che sta nella polvere a Gaza.

Netanyahu manterrà la parola data sull’accordo oppure, come è già successo in altre occasioni, troverà il modo di cambiare idea?

Potrebbe farlo, assolutamente. “Sono stato frainteso” è una frase che in politica si dice più spesso di “Avevo torto”.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Donald TrumpErdoganBenjamin Netanyahu

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