Le norme di carattere pensionistico della “manovra” sono, in larga misura, senza cuore e senza cervello. Il loro effetto economico è importante e costituisce una parte rilevante dei risparmi “della prima ora” (420 milioni nel 2012, 680 rispettivamente nel 2013 e nel 2014) di un provvedimento che sposta negli anni a venire (persino nella prossima legislatura) il grosso dei tagli.
Non c’è nulla di male se le pensioni, a fronte di un impegno di risanamento tanto consistente come quello richiesto dalla Unione europea, servono a “fare cassa”. Ma sarebbe stato preferibile realizzare i medesimi obiettivi di contenimento della spesa promuovendo interventi di carattere strutturale (ovvero di riforma) piuttosto che misure limitate nel tempo, trascorso il quale tutto torna come prima.
In sostanza, l’articolo 18 del decreto è troppo timido con la sola questione che meritava di essere affrontata: l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici del settore privato. In materia è previsto un marchingegno che si innesta a ridosso dell’anticipazione al 2014 dell’aggancio automatico del requisito anagrafico all’attesa di vita e che, a partire dal 2020, consiste nell’aggiunta di un mese all’anno per concludersi nel 2030 inoltrato.
Lo schema iniziale, contenuto nelle bozze, era assai più lineare e prevedeva il classico incremento di un anno ogni due e di conseguenza un’andata a regime lungo un percorso molto più breve e più sostanzioso sul piano finanziario. Ovviamente la mancanza di “cuore” (dove è riposto il coraggio) sul terreno delle riforme ha determinato, a compensazione, un giro di vite per quanto riguarda il “contributo” a carico delle pensioni vigenti.
E qui è venuta meno l’intelligenza, perché sulla rozzezza del provvedimento sono piovute critiche da ogni parte, persino dall’interno della maggioranza, tanto che il ministro Sacconi si è impegnato a ridiscutere l’impostazione e a riequilibrare l’intervento. Si tratta di una consistente manomissione dell’istituto della perequazione automatica delle pensioni. Se a normativa vigente i trattamenti pari a tre volte il minimo sono rivalutati al 100% dell’inflazione, le ulteriori quote comprese fra tre e cinque volte al 90% e quelle al di sopra delle cinque volte al 75%, con l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, per la durata di un biennio (2012-2013), la perequazione sarà dimezzata (45%) per la fascia d’importo compresa fra tre e cinque volte la pensione minima (468 euro per 13 mensilità), mentre non si applicherà più sulle quote di pensione superiori a tale limite.
Al lordo, si tratta all’incirca di importi tra 1.400 e 2.300 euro, nel primo caso; al di sopra di quest’ultimo ammontare, nel secondo. È indubbio, quindi, che in conseguenza dei criteri indicati nella manovra, si arriva a colpire (specie nella fascia più bassa) prestazioni che garantiscono appena dignitosi standard di vita. Ci vorrebbe, allora, la pietra filosofale per trasformare in oro pensioni che sono al massimo d’ottone.
E pensare che il Governo aveva davanti a sé un percorso che lo avrebbe messo al riparo da ogni critica (anche i sindacati si sono fatti vivi). Non è la prima volta, infatti, che si chiede un sacrificio ai pensionati. Da ultimo il Governo Prodi, nella passata legislatura, bloccò la rivalutazione automatica per l’anno 2008 sui trattamenti superiori ad otto volte il minimo (3.600 euro mensili lordi), realizzando un risparmio di 140 milioni. Sarebbe bastato, allora, muoversi sulla base della precedente impostazione per conseguire, più o meno, i medesimi effetti economici, ma in un ambito di maggiore equità. È bene tener presente che gli importi di rivalutazione automatica non corrisposti non saranno mai più inclusi negli assegni dei pensionati.
Un’altra norma – di ispirazione leghista – assai discutibile è quella “anti-badanti”. Sarà ora di accorgersi e di denunciare che, non solo la prosperosa signora ucraina, ma anche la vedova italiana di un marito ultrasettantenne e più anziano di vent’anni, avrà un trattamento di reversibilità fortemente decurtato se il matrimonio sarà durato meno di dieci anni. All’interno della maggioranza vi sono diversi “centri d’iniziativa” che si sono messi al lavoro per individuare emendamenti correttivi da veicolare al relatore al Senato (è Palazzo Madama il “gestore” della manovra). Ma in questi casi si finisce per rimanere prigionieri dell’esistente, ovvero dell’esigenza di mantenere gli stessi saldi, anche all’interno degli medesimi capitoli.
Si sta cercando di salvare le rivalutazione automatica legata al costo della vita nella fascia compresa tra tre e cinque volte il minimo, spostando l’intervento ai livelli superiori. Ma il cambiamento non è facile perché nella fascia bassa le pensioni sono tante e il loro numero diminuisce più si sale con i relativi importi. Allo stato del dibattito sono in campo due ipotesi: una più radicale nel senso che resterebbe in vigore la precedente normativa fino agli importi pari a cinque volte il minimo, mentre i trattamenti superiori a tale livello non riceverebbero per i prossimi due anni la rivalutazione prevista; l’altra più equilibrata nel senso che tutte le pensioni riceverebbero la copertura prevista fino a cinque volte il minimo, poi nulla per le quote eccedenti fino a dieci volte il minimo quando non sarebbe più corrisposta l’indicizzazione.
Logicamente tutto diventerebbe più agevole se fosse possibile, sul piano della sostenibilità politica, agire sulla età pensionabile delle lavoratrici e sull’istituto della reversibilità, in quest’ultimo caso ben oltre, sul piano qualitativo, la norma assai discutibile ora contenuta nella manovra (per la quale vengono cifrati appena 9 milioni).