Che il Governo Letta risponda a esigenze di necessità è noto ed evidente: lo stesso presidente del Consiglio (un atteggiamento invero singolare) ha preso le distanze dalla compagine di cui è guida e persino da sé medesimo. Eppure, un esecutivo con una base parlamentare tanto ampia e politicamente impegnativa, potrebbe osare parecchio e avventurarsi lungo il sentiero scosceso delle riforme, se non fosse che a questa parola continuano ad attribuirsi significati non solo diversi ma addirittura opposti.
Passiamo oltre – considerando il perimetro economico e sociale che caratterizza questa rubrica – rispetto alle questione della cosiddetta architettura istituzionale: una tematica che non ci appassiona, perché, se dipendesse da noi, ci limiteremmo a una radicale revisione dei regolamenti parlamentari, recuperando in questo modo efficacia ed efficienza senza doversi infilare in meccanismi delicati e complessi di riforma costituzionale e probabilmente destinati a peggiorare le cose come è accaduto con la sciagurata riforma del Titolo V. Evitiamo di occuparci anche dei “mal di pancia” riguardanti la nuova formulazione dell’articolo 81 Cost. a cui, in evidente malafede, si attribuisce l’introduzione del pareggio di bilancio, mentre, furbescamente, nella norma si parla solo di “equilibrio” corredandolo, peraltro, di tante “uscite di sicurezza” (deroghe ed eccezioni) da vanificarne il contenuto. È sotto i nostri occhi il tentativo di sottrarsi al vincolo del 3%, allo scopo di promuovere un po’ di crescita grazie a politiche consentite dal deficit spending.
Basta rileggersi le comunicazioni sulla fiducia del presidente Letta: il Governo pretende di tenere insieme minori entrate (in particolare: riduzione delle imposte sul lavoro, sospensione del pagamento di giugno dell’Imu in attesa persino del suo “superamento”, la mancata applicazione dell’aumento dell’Iva) e maggiori spese (un intervento a sostegno dei redditi più bassi, il rifinanziamento della Cig in deroga, la soluzione definitiva del problema degli esodati, gli incentivi per l’occupazione giovanile, il potenziamento dell’apprendistato, l’estensione al lavoro precario degli ammortizzatori sociali; tanto per ricordare gli interventi più importanti e più onerosi).
In questa fase a noi sembra sufficiente prendere in considerazione l’atteggiamento del Governo e della maggioranza sulle due riforme che sono state la “cifra” – volenti o nolenti – dell’esecutivo presieduto da Mario Monti e della sua stagione, nata sotto il sole di Austerlitz e finita nel tramonto di Waterloo. Ci riferiamo alla riforma delle pensioni del 2011 e alla legge n. 92/2012, che portano il nome del ministro Elsa Fornero.
Se l’Italia ha potuto riaccreditarsi sui mercati e presso i partner europei e internazionali ciò non è dipeso dal loden indossato dal Professore, ma dal lavoro “duro e sporco” della Professoressa. Ecco dunque la domanda: qual è l’atteggiamento di un Governo che vuole essere riformatore nei confronti di questi due provvedimenti ? Si torna indietro ripristinando praticamente lo status quo, oppure si correggono gli errori – che esistono – ma si salva la sostanza delle riforme? E quale è, ad avviso di chi scrive, tale sostanza?
È presto detto: il contenuto di innovazione dell’impianto Fornero consiste nel tentativo di interrompere la prassi di usare il sistema pensionistico (tramite l’accesso precoce al trattamento di anzianità dopo anni trascorsi all’interno della rete degli ammortizzatori sociali e degli incentivi alla risoluzione consensuale del rapporto) al servizio dei processi di riconversione e ristrutturazione produttiva. Una strategia che potrà avere successo se si riusciranno a potenziare le politiche attive, allo scopo di offrire altre opportunità di lavoro a un anziano che perda il proprio impiego.
La precedente prassi, addirittura incoraggiata dagli ordinamenti e dalle regole del mercato del lavoro e dal sistema pensionistico, è divenuta insostenibile, perché in palese contrasto con l’esigenza di elevare l’età pensionabile effettiva (in ragione dei trend demografici), di garantire un minimo di equilibrio nei sistemi pubblici a ripartizione (in una logica di equità intergenerazione), nonché di assicurare che i risparmi sulla spesa pensionistica concorrano al risanamento dei conti pubblici (si saranno accorti i cultori della statistiche che la spesa pensionistica è arrivata al 16,8% del Pil?).
Sulla sponda opposta a quella dell’intervento sull’età pensionabile (l’anzianità è stata “ferita a morte” dalla riforma) si trova l’istituzione dell’Aspi, che, a regime, semplificherà e ridurrà i periodi di copertura degli ammortizzatori sociali. Ecco dunque i temi cruciali delle riforme: gli stessi che ne costituiscono, nel medesimo tempo, i punti di forza e di debolezza. Non a caso, le critiche si sono concentrate proprio sul trait d’union tra pensioni e mercato del lavoro per quanto riguarda il tormentone degli “esodati” gonfiato, anche sul piano mediatico, ma che ha richiesto onerosi interventi di salvaguardia per la bellezza di 9,3 miliardi in un decennio.
Sta bene modificare e correggere, ma a fronte di quali alternative? Una strategia è quella di potenziare le politiche attive, allo scopo di offrire altre opportunità di lavoro a un anziano che perda il proprio impiego? Oppure quella annunciata dal potente neo presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, il quale ha gettato la spada di Brenno sulla prossima politica del lavoro: tutela a oltranza degli esodati non solo di quelli rimasti intrappolati dalla riforma entro il 2011, ma anche di quelli futuri attraverso il sostanziale ripristino dei trattamenti di anzianità; rinvio dell’entrata in vigore dell’Aspi?
Anche il premier ha affrontato questi temi nelle sue comunicazioni sulla fiducia. Letta non si è limitato soltanto a effettuare un formidabile assist a favore degli esodati, evocando persino un presunto (in realtà inesistente) impegno che la “comunità nazionale” avrebbe violato nei loro confronti. Ha prospettato un’ipotesi di pensionamento flessibile (magari attraverso una staffetta anziano/giovane in chiave di ripartizione di un posto di lavoro) per coloro che sono distanti 4 o 5 anni dalla pensione. Questi propositi sono sembrati un po’ più definiti nei giorni scorsi, quando il ministro Enrico Giovannini ha illustrato alla Commissione Lavoro del Senato quali potrebbe essere le misure di revisione delle riforme delle pensioni e del lavoro. In particolare, per quanto riguarda la previdenza è certamente auspicabile una maggiore flessibilità dell’età pensionabile, purché ciò non comporti le reintroduzione surrettizia del flagello del pensionamento di anzianità, provvidenzialmente superato nella riforma Fornero.
Un conto tutelare – come già si è fatto – gli esodati. È tutto un altro problema riabbassare l’età pensionabile per quanti hanno un lavoro, ripiombando così nel solito vizio di mandare in quiescenza persone ancora giovani e in grado di prestare ancora la propria opera. È forte il rischio di uno scambio, all’interno della maggioranza, tra le due personalità “forti” in materia di lavoro: Maurizio Sacconi al Senato, Cesare Damiano alla Camera, presidenti delle rispettive Commissioni Lavoro. Il primo potrebbe essere interessato a intestarsi le modifiche della legge sul lavoro, il secondo quelle della riforma delle pensioni: in entrambi i casi in una logica di ritorno al passato.
Dai dati dell’Isfol resi noti dal ministro a Palazzo Madama emerge una propensione delle aziende di avvalersi dei contratti a termine, al posto di altre forme più precarie (le collaborazioni, ad esempio) che invece hanno subito un crollo per effetto dei nuovi vincoli introdotti dalla legge n. 92 del 2012. In sostanza, le esigenze di flessibilità nell’impiego si sono rifugiate in questo istituto anche per potersi avvalere dell’abolizione del cosiddetto causalone nei primi 12 mesi.
Ecco dimostrato, allora, che, in materia di questa tipologia di contratti, si possono fare operazioni ben più serie della riduzione dei periodi intermedi (a cui ha già provveduto, largamente, la contrattazione collettiva). Se si vuole attuare una misura incisiva si elimini il “causalone” nell’ambito di tutti i 36 mesi di durata massima dei rapporti a termine e si superi tale limite nella somministrazione.
Ci sono, poi, nella legge Fornero parti non applicabili, come i criteri che consentono di definire la corretta titolarità di partite Iva. Poi, se proprio si vuole essere riformisti, sarebbe il caso di mettere mano nella confusa disciplina del licenziamento individuale. In materia, merita di essere segnalato il disegno di legge presentato da Scelta civica (rectius: da Pietro Ichino) che, per quanto sia contorto, macchinoso e oneroso per le imprese, cerca almeno di dare una risposta “in avanti” al problema non risolto della flessibilità in uscita quale momento di compensazione di maggiori garanzie in entrata.
Quanto al rifinanziamento della Cig in deroga, il Governo si è impegnato a provvedere al più presto. Ma fino a quando può durare un sistema di ammortizzatori sociali in base al quale una parte del mondo produttivo paga i relativi contributi all’Inps, mentre un’altra parte (quella che non era coperta dalle vecchie regole) continua ad avvalersi dell’intervento dello Stato e delle Regioni per di più in contesti produttivi (piccole imprese, studi professionali, ecc.) dove è difficile il controllo (soprattutto quando le comunicazioni avvengono ex post, come previsto) e sono facili gli abusi? Da tempo la soluzione è stata indicata nello sviluppo del “bilateralismo” e della sussidiarietà. La legge Fornero del 2012 ha assunto tale problematica in modo organico e in una prospettiva di stabilità. Si tratta della istituzione di Fondi interprofessionali per la tutela dei lavoratori nei settori non protetti. Al posto del ministro del Lavoro chi scrive chiederebbe alle Parti sociali, come condizione per il rifinanziamento della Cig in deroga, di avviare almeno un negoziato per l’istituzione o il potenziamento di tali fondi al fine di farli divenire operanti a partire dal prossimo anno.