SPILLO/ Renzi-Camusso, una sfida che Landini può “risolvere”

- Giuliano Cazzola

Cgil e Pd sono storicamente legate, ma Renzi ha iniziato un processo che mette in difficoltà il sindacato di Camusso. Che però può giocare una carta, come spiega GIULIANO CAZZOLA

landini_camusso_zoomR439 Maurizio Landini e Susanna Camusso (Infophoto)

Chiunque conosca un po’ di storia della sinistra politica e sociale di questo sventurato Paese (in cui i cittadini ormai non si recano più neanche a votare) non può che restare con un palmo di naso ogni volta che ascolta Matteo Renzi e Susanna Camusso (per carità di patria non parliamo di Maurizio Landini, l’uomo soprannominato “il megafono di Dio”, perché qualunque cosa debba dire lo fa urlando con la sicumera di chi possiede la verità rivelata). Renzi per ottenere l’applauso della sua base attacca la Cgil e i sindacati. Susanna Camusso si comporta allo stesso modo, in senso inverso.

Siamo alle ultime battute del Jobs Act Poletti 2.0 che, entro una quindicina di giorni, almeno per quanto riguarda la delega, verrà approvato in via definitiva. È in questa situazione che si arriverà a un momento importante di rottura come lo sciopero generale della Cgil contro un Governo in cui il partito di sinistra più votato in Europa detiene un indiscusso primato. Strano Paese l’Italia: in tutto il mondo, o almeno in gran parte di esso (tra cui sicuramente i paesi europei), quello tra partiti e sindacati è un rapporto genetico, che ha subito mutazioni, processi ora di subordinazione ora di autonomia, cambiamenti di verso nel movimento delle cinghie di trasmissione, ma che non è mai venuto meno.

Questo stato delle reciproche relazioni (potremmo parlare persino di “affinità elettive”) ha radici storiche differenti, ma tratti comuni ormai consolidati nel tempo. In generale, quando il sistema politico è bipolare il sindacato tende a essere alleato dei partiti o del partito della sinistra; laddove esiste un quadro politico pluralista accade normalmente che anche i sindacati si specchino nelle diverse ideologie e istanze che lo compongono. In tali casi, può persino capitare – com’è avvenuto in Italia – che il sistema politico si attesti su di un modello bipolare, con le caratteristiche del cartello elettorale piuttosto che della forza politica vera e propria; ma che l’ordinamento sindacale rimanga, in qualche modo, fedele all’antico pluralismo, come un’Atlantide rimasta a galla sull’acqua mentre – diversamente dalla leggenda – tutto il resto del mondo si inabissava.

Da noi è stato così: mentre la Cgil, per la sua potenza di fuoco organizzativa, diventava l’azionista di riferimento (in sostanza la “padrona”) della genealogia Pds-Ds-Pd e delle variopinte e affollate coalizioni della gauche, Cisl e Uil (ma come loro le organizzazioni del movimento cooperativo e del mondo economico costituite a immagine e somiglianza dei partiti della Prima Repubblica, poi scomparsi nel nulla) rimanevano in una “terra di nessuno”, costrette, per sopravvivere, ad appoggiarsi, come in un Limbo, ora ai governi considerati “nemici”, dalla Cgil, ora ritornando a Canossa nell’alveo di una stentata unità d’azione con la Cgil stessa.

In fondo, anche la Cisl e la Uil avevano dei riferimenti tra i soci fondatori del Pd, ma non potevano contare su di una sostanziale eguaglianza con quanti, nei sindacati e nel partito, vantavano un comune alto lignaggio di ex Pci. Chi era stato comunista era “più uguale” degli altri. La sapeva più lunga.

Poi, all’improvviso, all’interno del Pd ha avuto inizio la fase del ridimensionamento se non addirittura dell’estromissione degli ex comunisti, sia attraverso un intenso ricambio generazionale (per essere stati iscritti e dirigenti del Pci occorre avere almeno 50 anni), sia attraverso una concentrazione del potere interno in mani di ex dc o di democrat privi di un passato. Poi, alla stregua del virus Ebola, è scoppiata, improvvisa ma non inattesa, la “guerra a sinistra”. Le questioni del Jobs act Poletti 2.0 e del disegno di legge di stabilità sono soltanto dei casus belli, quasi dei pretesti, di una sfida a sinistra che, da latente, è divenuta aperta; perché a dividere il popolo che si riconosce nella Cgil e quello che si è ritrovato alla Leopolda ci sono ormai un differente sistema di valori e una diversa visione del presente e del futuro.

Come finirà lo scontro tra le due sinistre? In questa vicenda si nota, prima di qualsiasi altro aspetto, che non tornano i numeri. La Cgil, con alcuni milioni di iscritti, è in grado di mobilitare ancora centinaia di migliaia di lavoratori e pensionati. Eppure il sindacato di Susanna Camusso può contare, nei fatti, su di una minoranza – confusa, divisa in tanti sottogruppi e impotente – che è intorno, complessivamente, a meno di un terzo del partito. Diciamoci la verità: quello che la minoranza Pd della Camera annovera come un sua vittoria (l’emendamento Gnecchi, rettificato dal Governo) va ascritto piuttosto al ruolo istituzionale di Cesare Damiano (come presidente della Commissione Lavoro e relatore del AC 2660) che all’iniziativa di una parte del gruppo.

Dove finiscono (o finiranno), allora, i suffragi “orientati” dalla confederazione rossa? Una parte nel Sel, d’accordo. Ma è una forza politica troppo piccola. La Cgil, però, può fare tutti gli scioperi generali che vuole, può qualificarsi sempre più come un sindacato autonomo, ma non è in grado di grado di cambiare il proprio dna: nata da una costola della politica è condannata a trovare dei riferimenti di natura partitica. Certo, si possono fare dei giri di valzer con la Lega in occasione del referendum abrogativo della legge Fornero sulle pensioni, almeno fino a quando la Consulta – ce lo auguriamo – non dichiarerà inammissibile il quesito ai sensi dell’articolo 75 Cost. Ma sia Grillo che Salvini possono rubacchiare dei suffragi, anche tanti. Non sono in grado, però, diventare dei punti di riferimento per dei militanti abituati a compiere una scelta univoca in politica e nell’adesione a un sindacato.

Camusso sa che la prima fase della sfida a sinistra sarà vinta da Matteo Renzi, che il suo sciopero generale e quelli di Landini non serviranno a nulla, anzi rafforzeranno il premier-ragazzino. Renzi può essere sconfitto (o ridimensionato) soltanto sul piano politico, se si darà vita a una consistente forza elettorale alla sua sinistra, in grado, non di essere un’alternativa (perché da sinistra in Europa non si governa) ma un interlocutore competitivo e condizionante.

La Cgil è disposta a fare sua questa partita? E con quali altre forze? Sergio Cofferati ci provò nel 2001, ma non ebbe il coraggio di misurarsi in prima persona e mandò avanti un re travicello come Giovanni Berlinguer. Susanna Camusso non avrebbe il carisma necessario. Il solo uomo che potrebbe essere prestato alla causa si chiama Maurizio Landini. Tra i corvi anche un colombaccio può essere scambiato per un’aquila. Intanto, se i loro gruppi dirigenti fossero intelligenti, Cisl e Uil si accrediterebbero presso il Pd di Matteo Renzi, magari avviando un processo di unificazione tra le loro sigle. Ma la Cisl ha allontanato Giorgio Santini, un dirigente capace di una visione, affidandosi all’usato sicuro di Annamaria Furlan. La Uil, eleggendo al posto di Luigi Angeletti il 67enne Carmelo Barbagallo, ha trasformato la segreteria generale in una residenza assistita per anziani.







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