Altro che il gavettone alla candeggina maneggiato dal figlio Roberto Libertà. È un Niagara in versione padana quello che si è abbattuto ieri mattina su Umberto Bossi in persona con le perquisizioni in via Bellerio. Perché nel decreto esibito dalla Guardia di Finanza sta scritto chiaro e tondo che ci sono stati “esborsi effettuati per le esigenze personali di familiari del leader della Lega Nord”. E che la gestione della tesoreria del partito è avvenuta “nella più completa opacità fin dal 2004”. Il che sposta la questione ben oltre le responsabilità del pur discusso e discutibile Francesco Belsito, che ricopre quell’incarico solo dal 2009. E fa capire che la chiarezza invocata da Roberto Maroni non può fermarsi ai soldi smistati tra Cipro e Tanzania, né alle personali responsabilità di chi ha maneggiato negli ultimi due anni la cassa.
Il patrimonio del partito è tutt’altro che irrilevante. Il consuntivo del 2010 parla di oltre 36 milioni di entrate, 22 dei quali provenienti dai contributi elettorali riferiti alle europee e alle regionali (altri 18 sono giunti nel 2011). Il resto è arrivato da vari canali, tra cui il contributo versato dagli eletti, con una quota che va dal 17 al 20 per cento dei loro emolumenti: il doppio di quanto previsto da Pd e Pdl. Soldi gestiti senza il minimo di trasparenza, come lamentato nei giorni scorsi da dirigenti di primo piano e semplici iscritti appena venuti a galla gli investimenti in Tanzania.
Figuriamoci ora che viene ipotizzato un uso di famiglia, anzi un abuso: in una “dinasty” come quella di Gemonio che di soldi pubblici beneficia già di suo, come nel caso del finanziamento della scuola privata della Bosina che ha tra i suoi fondatori la moglie di Bossi; o come il generoso stipendio di cui usufruisce suo figlio Renzo, imposto dal padre come consigliere regionale in Lombardia.
In realtà, l’inchiesta che ha portato ieri la Finanza in via Bellerio rischia di diventare il colpo definitivo alla monarchia assoluta esercitata dal “senatùr” sulla Lega da oltre 25 anni a questa parte. Un potere totale, inclusa la scelta di chi doveva di volta in volta manovrare la cassa. E che peraltro non si è mai rivelata felice. Non con Alessandro Patelli, finito sotto processo per la tangente Enimont da 200 milioni di lire (vicenda per la quale lo stesso Bossi ha subìto una condanna in via definitiva). Non con Maurizio Balocchi, coinvolto in prima persona nel crac di Credieuronord, la banca voluta dal Carroccio. Non con l’attuale tesoriere Francesco Belsito, coinvolto di suo a Genova in un inquietante intreccio di avvisi di garanzia, crac, affari immobiliari e alleanze a dir poco avventurose.
Ma i conti li hanno sempre visti solo in pochi, anzi pochissimi. È stato chiesto inutilmente di poterli verificare anche in un recente consiglio federale, ha ricordato ieri Maroni, addebitando questa chiusura a “chi doveva decidere”; e si suppone non fosse l’usciere. Non è teorizzando complotti dei poteri forti, o peggio ancora chiudendosi nel silenzio, che la Lega uscirà da questa vicenda. Né basterà a tacitare l’irritazione della base del partito l’ennesimo show-down di Radio Padania, che ieri ha nuovamente chiuso il proprio forum, come già aveva fatto nella fase della grandinata di critiche alla succube alleanza con Berlusconi.
È davvero tempo di pulizie, per ricorrere ancora alle parole di Maroni. Ma di fondo: che non possono quindi ridursi a liquidare il solo Belsito. Perché sarebbe come limitarsi a rimuovere la polvere, anziché eliminarne la causa.