PARIGI-ITALIA/ Bertinotti: no alla guerra, ecco perché sto col papa

- int. Fausto Bertinotti

Aumenta la paura terrirsmo in tutta Europa, Italia compresa. Ma se diamo retta ad alcuni, rischiamo di "proclamare una guerra che invece come tale non c'è". FAUSTO BERTINOTTI 

papafrancesco_bacio_bambinoR439 Papa Francesco (Infophoto)

Il terrorismo islamico getta nella paura l’Europa. Ieri le forze speciali francesi hanno compiuto nuove operazioni antiterrorismo, mentre gli Stati Uniti hanno allertato i nostri servizi di sicurezza su possibili attacchi e in cima alla lista ci sarebbero la basilica di san Pietro, il duomo di Milano e il teatro alla Scala. Ripetuti allarmi, poi rientrati, hanno riguardato le metropolitane di Roma e Milano. Per Fausto Bertinotti, uomo simbolo della sinistra italiana, presidente della Camera dal 2006 al 2008, siamo divenuti incapaci di vedere, e rischiamo di “proclamare una guerra che invece come tale non c’è”. Con lui, come al solito, la conversazione è a tutto campo.

Bertinotti, nel mirino c’è anche l’anno santo. Che ne pensa?
Credo che una manifestazione religiosa sia per il tipo di terrorismo meno esposta al rischio di altri luoghi, come quelli di divertimento, che nella visione fondamentalista sono considerati la manifestazione della degenerazione di una civiltà, mentre la prima è un fenomeno non totalmente secolare.

Da Merano a Saint Denis e a Charleville, i nemici sono nella porta accanto.
“Nemico” è un termine che sembrava poter essere abrogato dalla politica e sostituito dal meno colpevolizzante “avversario”. Se ora deve tornare nella scena mondiale, sarebbe bene circoscriverlo alle forze organizzate e non alle singole persone. Certamente l’Isis è nemico, ma non vorrei che anche le singole persone venissero considerate come tali. Anche quando siamo obbligati a contrastarle con la violenza.

Perché questa distinzione?
Per non cadere nella guerra civile. Quando si fa un’operazione di polizia, anche la più drastica, contro un delinquente, lo si chiama così, non nemico. L’operazione di polizia può richiedere l’uso della violenza e chi la esercita è lo Stato di diritto, che ne ha il monopolio. Ma siamo sempre nel perimetro di ciò che è controllabile democraticamente.

E nella guerra? 
In questo caso, come Carl Schmitt sapeva bene, tutto sfugge dalle mani del popolo e viene sequestrato da altro, sia esso il livello statuale o sovranazionale. Per questa ragione la fedeltà al dettato costituzionale italiano, secondo il quale “l’Italia ripudia la guerra”, va fortissimamente attualizzata.

Ma in che direzione?
Se l’Italia ripudia la guerra deve farlo seriamente, cioè deve pensare che le controversie internazionali, caos mediorientale compreso, si combattono su un terreno altro da quello della guerra. Un’operazione di polizia, per quanto in circostanze drammatiche, è compatibile con la democrazia; temo che la guerra non lo sia. 

Presidente, questa è teoria. Lo stato islamico vuole annientare l’occidente.
Il primo a usare la definizione di terza guerra mondiale a pezzi è stato papa Francesco. E’ una definizione che condivido. Ma faccio notare che la politica europea, quando il pontefice ha detto quelle parole e anche dopo, è stata zitta.

Perché secondo lei?

Perché non condivide quella formula. Il cinismo della realpolitik non considera guerra ciò avviene al di là del Mediterraneo, esattamente come considera chi muore al di là del Mediterraneo — ma anche nel Mediterraneo — come un fatto fisiologico, un elemento del contesto. Per cui se a Beirut c’è una strage con 44 morti (12 novembre, rivendicato dall’Isis, ndr) questo non tocca le coscienze.

Che cosa ci sta accadendo, Bertinotti?
Siamo rinchiusi in una fortezza e tutte le categorie che usiamo sono interne alla fortezza. Papa Francesco ne è al di fuori e dal suo punto di osservazione può vedere molto meglio. Dice al mondo che c’è una terza guerra mondiale a pezzi, ma il mondo non lo ascolta. Appena la violenza investe la fortezza, il mondo usa subito quella definizione, ma non tutta, solo una parte. Perseverando, in questo modo, nell’incapacità di vedere. Prima non vedevi perché non eri toccato, ora sei toccato e vedi in modo strabico. E proclami una guerra che invece come tale non c’è. 

Vorrebbe negare che siamo sotto attacco?
No. E’ vero che l’Isis attraverso il terrorismo ha dichiarato una guerra, ma questo non determina il reciproco. Perché l’avversario in questo caso non ha le caratteristiche del nemico in guerra — uno stato, un territorio, uno scontro in cui i confini tra nemici sono precisamente determinati — e chi proclama la guerra, malgrado si possa capire la sua motivazione, compie l’errore politico figlio della stessa coazione a ripetere con cui si è fatta la guerra in Iraq, si è andati in Afghanistan, si è fatta saltare la Libia. Ma così si fa una semplificazione tragicamente inadeguata.

Lei dice? E perché?
Perché gli altri non ti seguono. Bombardi e ti appelli all’articolo 42 del Trattato di Lisbona, ma il tuo vicino ti dice: No, un attimo, vediamo, non in quelle forme… Vuol dire che non è una guerra e che tu stai facendo qualcosa che non corrisponde alla realtà. Gli attentati di Parigi, le operazioni di polizia, i nuovi allarmi sono la drammatica evidenza che l’emergenza terroristica proviene dal nostro interno. E’ invocata dall’esterno, ma è effettuata al nostro interno. E’ allora su noi stessi che dovremmo ragionare.

Proviamo di farlo.
Trovo insopportabili i commenti degli stati maggiori culturali che abbiamo intorno. La retorica che viene prodotta a mani bassi dagli editorialisti è: colpiscono la nostra civiltà, la civiltà dei buoni, e ci colpiscono perché siamo democratici.

Che cosa non la convince?
Siamo democratici, d’accordo, ma con baratri spaventosi di povertà, di diseguaglianza, di esclusione, di scarto. Nelle banlieues parigine la disoccupazione è al 50 per cento, quando ci fu la ribellione del 2005 il presidente della repubblica Nicolas Sarkozy li chiamò racaille, feccia. Dove sono l’integrazione e la “fraternité”? Come puoi dire che la tua civiltà è  indiscutibile e l’altro è il mostro che l’aggredisce?

Che terrorismo è quello dell’Isis, secondo lei?

Il terrorismo è sempre un partito armato. “Partito” vuol dire che si costituisce nella sfera della politica, non c’è niente che lo genera direttamente: né la povertà, né la miseria, né la disperazione, né la religione. Tale costituzione politica può poi essere più o meno facilitata dalle condizioni ambientali. E allora, come accade in Francia e in Belgio, la capacità di reclutamento è maggiore.

C’è una fortissima crisi culturale interna all’islam.
Assolutamente sì. Ogni idea forte contiene il rischio del fondamentalismo, che vuol dire la negazione dell’altro. Ma non si sfugge a questo rischio slittando verso il relativismo e il pensiero debole, che è inutile all’umanità. Bisogna contrastare il pericolo dall’interno.

Da una parte c’è chi uccide in nome di Dio, dall’altra c’è un mondo che si è allontanato da Dio fino a renderlo irrilevante. I foreign fighters sono andati in Siria per fuggire dal Nulla.
Siamo di fronte a un mistero della vita umana, è difficile dare risposte; non le abbiamo nemmeno per una madre che uccide suo figlio tra le mura di casa. Ed è per questo che io, non credente, sono commosso quando penso al Giubileo della misericordia. E’ la risposta che l’uomo sincero attende di fronte all’esplosione della violenza. 

Che cosa le fa dire questo?
Avverto che la misericordia è la questione chiave, il culmine del bisogno ultimo di noi uomini di guardare l’altro negli occhi. Le discussioni sul rinvio del Giubileo sono insensate, non tanto per ragioni di sicurezza, ma per la diversità abissale che c’è tra la conferma del Giubileo e il petto gonfio di chi proclama la guerra. E comunque, conosco l’obiezione.

Lo ha detto lei: non sono credente.
Francesco risponderebbe che devo seguire la mia coscienza. Credenti o non credenti, noi uomini non abbiamo degli “statuti speciali” per vivere. Anche la coscienza non è un’istantanea, ma il frutto di un processo; esattamente come la fede, quando è vissuta autenticamente, non lascia in pace. 

E che cosa dice la coscienza?
Coscienza non è fare quello che vuoi, o che desideri o che ti piace. E’ un processo di costruzione del rapporto con l’altro e con il nostro essere uomini. 

Cosa si deve fare in Siria e Iraq, presidente Bertinotti?
Mi viene in mente una ballata di Dario Fo, quando dice che siamo tutti uniti, ma il nemico marcia alla nostra testa. Direi due cose: la prima, abbandonare l’idea di essere noi a fare la guerra. La seconda, ricostruire la mappa degli amici e dei nemici con un profondo processo di revisione critica. Gli stati dell’occidente hanno scelto come alleato di volta in volta il nemico del proprio nemico, e così hanno creato il mostro. Chi finanzia il Daesh se non l’Arabia Saudita e il Qatar? Ma chi è alleato di queste forze? Cominciamo con l’abbandonare il terreno delle complicità. 

Si può colmare il nostro vuoto? 

Se invece delle visioni apologetiche che diffondiamo a quattro mani sulla nostra civiltà ci interrogassimo sulla sua crisi, forse potremmo ricominciare a ricostruire il dialogo tra gli uomini.

Ma che cosa ridà un volto umano agli uomini?
La relazione con l’altro. Occorre ricostruire le relazioni dopo che sono state sequestrate dal mercato, che è lo stravolgimento della relazione perché la trasforma in merce, alienando e massificando il mondo. E’ qui che il gigante ha i piedi d’argilla.

E quali relazioni ci faranno uscire dal Nulla?
Nella storia si sono accese tante luci, come il cristianesimo e il movimento operaio. Ripartiamo da quelle.

(Federico Ferraù) 







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