Un giudice della California ha dichiarato illegale l’uso della forza ordinato a Los Angeles da Trump. Il suo nome è Breyer. Una vecchia conoscenza
Titolo d’apertura ieri pomeriggio sui siti dei grandi media Usa, ben visibile anche su quelli italiani: “Un giudice federale dichiara illegale l’uso della guardia nazionale a Los Angeles deciso da Trump”. In un distretto federale della California il governatore “dem” Gavin Newsom – possibile candidato presidenziale nel 2028 – ha dunque avuto ragione in un contenzioso squisitamente politico con la Casa Bianca, sulla base di una norma di polizia del secolo XIX, quando LA aveva meno di 100mila abitanti.
A dissotterrare in via “nativista” la regola e a farla valere a supporto del “resistente” Newsom – nello Stato in cui è stata attorney e senatrice Kamala Harris – è stato l’84enne Charles Breyer: un’intera vita spesa in California fra tribunali e impegno civile (politico) nelle fila liberal fin dagli studi nel campus antagonista di Berkeley, nei roventi anni 60.
Il suo nome è associato fra l’altro a una pronuncia ambientalista di portata planetaria come la transazione da 16,5 miliardi di dollari fissata a spese della Volkswagen a risarcimento dei consumatori americani danneggiati dalle emissioni illegali.
Più folkloristica – ma non meno significativa sul piano politico-culturale – una condanna simbolica a un giorno di reclusione per un famoso attivista californiano per la legalizzazione della cannabis che rischiava una pena fino a un secolo. Tutto questo, tuttavia, è del tutto fisiologico all’interno della civiltà istituzionale e giudiziaria statunitense: dove la sensibilità sociopolitica dei giudici federali – nel mosaico sempre aggiornato dalle elezioni – contribuisce anzi per molti versi alla forza storica del sistema e alla sua vitalità evolutiva.

Ciò che invece – dopo la pronuncia anti-Trump – ha fatto aggrottare più di un sopracciglio è la biografia completa del senior judge Breyer. Che ha un fratello maggiore: l’87enne Stephen. Il quale è stato giudice della Corte Suprema dal 1994 (su nomina di Bill Clinton) al 2022 e sempre nel settore sinistro del collegio di Washington.
Talmente preoccupato, Stephen Breyer, di mostrarsi indipendente dal potere politico (dem) da annunciare le sue dimissioni all’inizio della presidenza Biden.
Sul collo di Breyer aveva preso a soffiare il fiato sempre più forte dell’establishment dem, esasperato dal fatto che Trump 1 avesse potuto designare ben 3 justice sul plenum di 9, spostando in direzione conservatrice gli equilibri nella Corte.
E ciò era potuto accadere perché una giudice per molti versi clone di Breyer – la radicale israelita Ruth Bader Ginsburg – aveva respinto ogni pressione alle dimissioni nonostante il peggioramento della salute. Per questo a Breyer non è rimasto che cedere al diktat dei dem obamiani, ansiosi di far nominare a Biden un “loro” giudice.
L’identikit alla fine è stato individuata in Ketanji Onyika Brown Jackson, acclamata come prima donna afro nella Corte. Meno illuminato è risultato il fatto che la sua carriera giudiziaria fosse decollata come giovane “clerk” del justice Stephen Breyer. Ossia il fratello maggiore della “toga rossa” che ieri si è conquistato le prime pagine per aver “resistito” al presidente repubblicano.
Il quale nel 2016 ha sconfitto la moglie del presidente dem designatore di Breyer il Vecchio e nel 2024 ha sbaragliato il presidente che aveva politicamente combinato la successione del medesimo; ma anche la vicepresidente-candidata, proveniente dallo stesso ceto politico-giudiziario californiano di Breyer il Giovane.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
