La Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata sul mancato pagamento di contributi per la pensione da parte del datore di lavoro: ecco come ovviare

Dopo la modifica legislativa di cui abbiamo dato conto nel marzo scorso, una recentissima decisione della Cassazione a Sezioni Unite (n. 22802 del 7 agosto scorso) è tornata sull’art. 13, l. n. 1338/1962, ridisegnando la sequenza temporale delle azioni da questa norma previste a tutela della posizione contributiva del lavoratore.



Ricordiamo, innanzitutto, che, in caso di omissione contributiva da parte del datore di lavoro: a) il debito contributivo si prescrive in cinque anni dal momento in cui sorge; b) durante il quinquennio il lavoratore è comunque tutelato dal principio di automaticità delle prestazioni; c) decorso inutilmente tale termine, l’obbligo contributivo si estingue e il lavoratore è esposto ad un potenziale danno pensionistico.



Per rimediare a questo rischio l’art. 13: a) prevede la possibilità di versare all’INPS una somma pari alla quota di pensione conseguente ai contributi non pagati dal datore di lavoro (c.d. rendita vitalizia); b) stabilisce che tale azione sia esercitabile a partire dal momento in cui l’obbligazione contributiva sia prescritta; c) attribuisce sia al datore di lavoro sia, in sua sostituzione, al lavoratore la possibilità di costituire la rendita vitalizia; d) nel secondo caso attribuisce al lavoratore il diritto ad ottenere dal datore di lavoro il risarcimento del danno corrispondente alla somma versata; e) la modifica di fine 2024 ha stabilito che il lavoratore possa costituire la rendita vitalizia anche dopo che si sia prescritta l’anzidetta possibilità, in tal caso, però, senza diritto al risarcimento del danno.



Inoltre, secondo la giurisprudenza, l’azione ex art. 13 si prescrive comunque in dieci anni a partire dalla prescrizione del credito contributivo tanto per il datore di lavoro quanto per il lavoratore.

La recente sentenza della Cassazione è intervenuta proprio su quest’ultimo termine, differenziandone la decorrenza in ragione del soggetto che propone l’azione. Così, nulla cambia se la rendita vitalizia è costituita ad iniziativa del datore di lavoro, mentre il lavoratore può sostituirsi al datore di lavoro solo dopo che sia inutilmente decorso il suddetto termine decennale ed entro i successivi dieci anni, sempre con possibilità di chiedere il risarcimento del danno. Superato anche questo periodo, infine, il lavoratore può ancora richiedere la costituzione della rendita con onere a suo carico, ma senza poter poi ottenere il risarcimento dal datore di lavoro.

Veduta esterna del palazzo della Corte Suprema di Cassazione (Foto 2024 ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Sintetizzando la sequenza temporale espressa in anni è la seguente: 5 (termine di prescrizione della contribuzione) più 10 (costituzione rendita vitalizia da parte del datore di lavoro, ex art. 13, comma 1) più 10 (costituzione rendita vitalizia da parte del lavoratore, con risarcimento del danno). Decorsi 25 anni dal termine iniziale resterà sempre al lavoratore la possibilità di costituire la rendita vitalizia, ma con onere soltanto a suo carico.

Quali le ragioni di una simile sequenza? Senza entrare in complessi aspetti tecnico-giuridici, la Corte di Cassazione osserva che viene così assicurata «la concreta possibilità di applicare il “congegno” di regolarizzazione contributiva per un arco di tempo sufficientemente esteso e ragionevolmente idoneo ad assicurarne la effettività».

Se ciò è vero di principio, non è detto che lo sia in concreto, a ragione del costo certo per il lavoratore a fronte di un risarcimento del danno, se non escluso, comunque più incerto, considerata l’accresciuta possibilità di cessazione dell’impresa in un simile arco temporale.

Come già si è scritto, la questione irrisolta, che anche questa sentenza evidenzia, è se la tutela dalle omissioni contributive del datore di lavoro debba essere esclusivamente a carico del lavoratore e di carattere risarcitorio, nonostante la natura di diritto fondamentale della pensione.

 

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