Giuliano Amato è sceso subito in campo a favore di una “nuova Ue per fermare Trump”. Proprio oggi servirebbe il parere del costituzionalista Amato
Giuliano Amato è sceso subito in campo a favore di una “nuova Ue per fermare Trump”. Lo ha fatto sulla prima pagina di Repubblica, a sua volta subito schierata a favore dell’Europa militare di ReArm, ideata e imbracciata dal presidente francese Emmanuel Macron. Il quotidiano è controllato dalla famiglia Agnelli, a sua volta prima azionista di Stellantis, colosso italo-francese dell’auto. Michele Serra ha confermato sulla stessa Repubblica la convocazione di un “girotondo per l’Europa” il 15 marzo a Roma, rivendicando i piani di riarmo di “un’Europa giovane e inedita” anche nella loro funzione resistenziale verso l’America di Donald Trump (che pure vuole il cessate il fuoco fra Ucraina e Russia dopo averlo imposto fra Israele e Hamas a Gaza).
Su Rearm hanno già espresso il loro disaccordo sia la segretaria del Pd Elly Schlein (con passaporto americano e ovvie simpatie dem), sia il numero uno della Cgil, Maurizio Landini (ex sindacalista metalmeccanico), sia il leader M5s Giuseppe Conte, apertamente sostenuto da Trump nel ribaltone del 2019.
Quasi quarant’anni fa, Amato fu per tre anni il sottosegretario alla Presidenza del governo di Bettino Craxi: era il proverbiale “centralinista” del premier socialista quando a Sigonella andò in scena il più famoso atto di ribellione dell’Italia post-bellica – e Paese fondatore dell’Unione – all’America repubblicana. Pochi anni dopo Craxi dovette fuggire dall’Italia fuori Europa, inseguito dalla Tangentopoli milanese.
Amato, invece, è stato in seguito due volte premier: a metà fra ruolo istituzionale e fedeltà al centrosinistra craxiano-andreottiano prima e prodiano poi. Nel 1992 – mentre la Procura di Milano era in piena offensiva contro il Psi craxiano – fu il costituzionalista “lib-lab” a guidare un governo balneare cui toccò subire l’attacco alla lira orchestrato da George Soros.
Un passaggio cui alcuni osservatori hanno avvicinato vent’anni dopo l’assalto allo spread italiano da parte dell’America-Nato di Obama-Biden e della Ue di Sarkozy-Merkel. Un momento comunque fatale per l’antico craxiano Silvio Berlusconi, nel più clamoroso dei numerosi “ribaltoni” politico-istituzionali avvenuti nella “seconda repubblica”.
Di fronte al primo dei molti assalti all’Italia giunti da Wall Street, il governo Amato non batté ciglio: svalutò la moneta nazionale nel “serpentone” pre-euro, dopo aver lasciato dissanguare per settimane le riserve valutarie della Banca d’Italia. Assecondò poi le spinte della rampante finanza anglo-globale impostando un grande piano di privatizzazioni nazionali.
Quest’ultimo ricevette dignità teorica principale dalla penna bocconiana di Mario Monti – in seguito commissario Ue e premier tecnico – sulle colonne del Corriere della Sera (Fiat prima azionista). La strategia fu poi realizzata dai successivi governi Ciampi e Prodi 1.
Amato ricevette il primo incarico dal neo-presidente Oscar Luigi Scalfaro, pochi giorni dopo il celebre summit del Britannia sulle privatizzazioni italiane, promosso dal direttore generale del Tesoro Mario Draghi e organizzato da Goldman Sachs. Dopo la prima vittoria elettorale di Berlusconi, fu poi Scalfaro a muovere le fila di un primo ribaltone, sfociato nel governo Dini e quindi nelle elezioni anticipate vinte dell’Ulivo nel 1996.
A fine decennio – non prima di aver presieduto l’Antitrust su designazione di Prodi – Amato riemerse come premier quando Massimo D’Alema gettò la spugna del secondo di tre esecutivi del centrosinistra nella legislatura ulivista. L’unico premier ex comunista nell’Italia democratica non resistette, fra l’altro, all’aver portato il Paese in guerra con la Nato (a guida Usa dem) nell’Est Europa contro la Serbia sul Kosovo.
Nei governi D’Alema e Amato 2 – su incarico del presidente neoeletto Carlo Azeglio Ciampi – ebbe un ruolo di primo piano Sergio Mattarella: prima vicepremier con delega all’intelligence (nei mesi cruciali dell’operazione Nato), poi ministro della Difesa.
Le strade di Amato (nel frattempo anche advisor internazionale di Deutsche Bank) e Mattarella sono poi rimaste intrecciate. Si sono ritrovati assieme giudici costituzionali. Mattarella designato nell’ottobre 2011 dal Parlamento ancora a maggioranza centrodestra, ma con lo spread italiano già a 400 e Berlusconi sotto estrema pressione dal Quirinale di Giorgio Napolitano. Amato fu invece nominato direttamente da Napolitano, appena rieletto al Quirinale nel 2013, peraltro dopo la “non vittoria” del Pd alle politiche.
Nel 2015 i due si ritrovarono a giocarsi in volata la presidenza. Amato appariva inizialmente in vantaggio, come garante più visibile del “patto del Nazareno” fra il Pd di Matteo Renzi e il centrodestra di Berlusconi. Il Nazareno ebbe due finalità essenziali. La prima fu la protezione del duopolio Rai-Mediaset, nato nel 1990 con l’Andreotti 7 (con a bordo sia Amato sia Mattarella, poi dimissionario).
La seconda era il contenimento della magistratura militante anti-berlusconiana, che da allora spostò effettivamente il tiro su obiettivi come Denis Verdini e Roberto Formigoni, prima di aprire il fronte-migranti contro il leader leghista Matteo Salvini. Alla fine, tuttavia, il ruolo di presidenza “super Renzi & Berlusconi” finì a Mattarella. Premio di consolazione per Amato è stata la presidenza di una Corte costituzionale strutturalmente “mattarelliana”.
In questi giorni Mattarella – divenuto il presidente italiano con maggior longevità di carica – ha intanto colto l’occasione di una visita di Stato in Giappone (quattro mesi dopo quella in Cina con Romano Prodi e John Elkann al seguito) per affermare che “l’Italia è contro i dazi sul libero mercato”. Sarebbe quindi contro Trump – e al fianco di Macron “non allineato” – l’Italia del governo Meloni in carica (l’unico teoricamente autorizzato a parlare “per l’Italia” in una repubblica parlamentare).
Sarebbe interessante conoscere l’opinione di un costituzionalista come Amato sul profilo sempre più “semipresidenzialista di fatto” di Mattarella: il quale ha del resto legato per tempo l’Italia a Macron – unico leader “semipresidenziale” nella Ue, ora tuttavia messo in minoranza dai francesi nel voto europeo e nazionale – attraverso un singolare “Trattato del Quirinale”, firmato dall’allora premier Draghi.
P.S.: sui media italiani il caso Washington Post è comparso e sparito come una meteora. Non è evidentemente più una notizia che un editore “impuro” come Jeff Bezos, patron di Amazon, voglia condizionare la libertà di stampa del più importante quotidiano (dem) della capitale statunitense per favorire i propri interessi finanziari e politici.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.