Si levano gli scudi contro la riforma della giustizia, con critiche che dovrebbero far riflettere la sinistra nostrana

La cosiddetta seconda repubblica, se stiamo calcolando bene il numero dei mutamenti, può vincere il premio del “Paese dei paradossi”. Non si tratta solo di un momento di confusione della politica e delle istituzioni, ma dell’ignoranza storica che veleggia indisturbata dai dibattiti parlamentari a quelli che un tempo si chiamavano “quarto potere”, cioè l’informazione, che è ormai un coacervo di ricordi sbagliati o sbiaditi (nel migliore dei casi) della storia di questo Paese.



Probabilmente la riforma della giustizia passerà anche dopo la seconda votazione alle Camere e al referendum, ma per comprendere la linearità italiana occorre ascoltare quello che si è sentito in questi mesi, metterlo a confronto con quello che si è detto per anni e assistere al paradosso che, dopo decenni la riforma della giustizia, se passerà con la separazione delle carriere e due Csm, sarà opera del centrodestra, oppure della destra-centro, o della destra-destra come dicono alcuni che ormai si limitano alle definizioni.



In pratica quello che dai tempi di Montesquieu si chiamava “giusto processo”, oppure sbrigativamente garantismo, con la parità tra difesa e accusa, davanti a un giudice terzo, entra nel pensiero dei “figli e nipoti” della destra, mentre chi si oppone dice di stare a sinistra.

Guardiamo nel passato. “Le ragioni della scelta in favore della unitarietà dell’organizzazione tra giudice e pubblico ministero sono essenzialmente di ordine politico, in quanto superata la distinzione, fondamentalmente erronea, tra i poteri dello Stato e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni non sarebbe concepibile in uno stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva e magistratura giudicante da quella nettamente distinta”.



Unità della magistratura quindi, come sentiamo spesso in televisione da esponenti della varia sinistra di questo Paese, che in questo modo si mostra, dopo un secolo, d’accordo con il codice fascista di Dino Grandi, Alfredo Rocco e Benito Mussolini.

Cose che nel 2025, nei Paesi dell’Occidente democratico, sembrano uno scempio istituzionale, che regge ancora in Turchia e in Bulgaria.

Eppure la sinistra italiana insiste. Sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, uno dei cronisti, di solito informatissimo su quanto accade in tribunale e tra i magistrati, relegava la riforma della giustizia come un “omaggio a Berlusconi”.

Il povero Marco Pannella si sarà rivoltato nella tomba. Al ventiduesimo congresso giuridico forense, Pannella chiese di prendere in considerazione le proposte di abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e della separazione delle carriere giudiziarie. Per tutta la vita, Pannella ha sostenuto storicamente la separazione delle carriere, vedendola come una riforma necessaria per favorire l’indipendenza della magistratura e l’imparzialità della giustizia.

L'”informatissimo” cronista del Corriere deve esserselo dimenticato, anche, se a dirla tutta, Berlusconi arriva anche lui, ma molto tempo dopo a parlare della divisione delle carriere.

In tutta questa vicenda paradossale, c’è una “valanga” di riformisti socialisti che si sono sempre battuti per la separazione delle carriere. Certo anche allora le critiche venivano da sinistra. Il Pci non si dimenticava mai che l’articolo 21 del Comintern definiva i “riformisti” dei “socialfascisti”. Lo fecero anche con Giacomo Matteotti, il primo martire antifascista d’Italia, avvocato, socialista e riformista. Ma la memoria a volte ti tradisce.

Che dire poi degli smemorati all’ombra di Breznev di un personaggio come Giuliano Vassalli? Giurista, eroe della Resistenza, ma anche profeta. Il 19 febbraio 1987, Vassalli rilasciò un’intervista al Financial Times e disse: una riforma del processo in senso accusatorio senza separazione delle carriere è una riforma a metà. Se il giudice e il Pm faranno parte della stessa carriera, degli stessi ruoli, questo è uno dei tanti elementi che non rendono molto leale parlare di sistema accusatorio.

Potremmo fare un altro migliaio di esempi. Terminiamo con un eroe della lotta alla mafia, Giovanni Falcone, che diceva: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungere nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono quindi esperienza, competenze, capacità. Preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere come invece oggi è, una specie di para-giudice.

Il giudice in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolto al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano in realtà indistinguibili gli uni dagli”.

Di fronte a queste dichiarazioni che cosa dicono personaggi come Conte, Patuanelli e altri prestigiosi uomini della attuale sinistra italiana?

Facendo i conti approssimativi, anche se la riforma non passasse, il paradosso italiano sulla giustizia è che il famoso “campo largo”, la nuova sinistra italiana, è storicamente più a destra della destra-destra.

C’è solo da piangere.

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