Con l'avvicinarsi della messa a punto della Legge di bilancio si torna a parlare di interventi di riforma delle pensioni
Siamo alla fine dell’estate e come ogni anno l’argomento pensioni, puntualmente, comincia a riaffiorare in quanto in autunno si comincia a preparare la Legge di bilancio e in quella sede saranno contenute alcune norme che riguardano la previdenza che andranno in scadenza al 31 dicembre 2025 e che bisogna, eventualmente, prorogare.
Per sgombrare il campo da facili e inutili speranze diciamo subito che l’auspicata, sperata e promessa riforma strutturale non sarà inserita nellamanovra e che quindi non ci sarà a partire dal 1° gennaio 2026 quella riforma organica che tutti i cittadini aspettano. Il Governo fin dal suo insediamento nell’ottobre del 2022, pur avendo inserito nel suo programma elettorale la riforma previdenziale, ha, a causa di difficoltà di natura economica e di altre di natura politica, procrastinato tale impegno affermando di voler adempiere a tale promessa “durante il corso della legislatura” sperando in un miglioramento dei conti pubblici.
Ciò non si è verificato e dal momento che la legislatura termina nell’anno 2027 e l’ultimo anno utile per approvare, sperabilmente, qualcosa di consistente sarà la Legge di bilancio dell’anno venturo, molto probabilmente quest’anno ci si limiterà, al di là di dichiarazioni roboanti, a qualche piccolo intervento di “maquillage”.
Questo modo di operare da parte dei vari Governi che si sono succeduti negli ultimi anni in Italia è da condannare. Ogni anno fino all’estate non si parla di previdenza a parte qualche intervista sui giornali o qualche intervento di politici nei talk show televisivi, poi si inserisce qualche limitato provvedimento nella Legge di bilancio di fine anno che poi viene approvato senza alcun confronto parlamentare e ponendo, in certi casi, anche il voto di fiducia, entro il 31 dicembre.
Tale problematica, invece, per l’impatto che causa alla vita dei cittadini dovrebbe avere un suo iter autonomo in Parlamento dopo che ci sia stato un confronto costruttivo con i sindacati, con gli esperti del settore e con le varie associazioni di categoria che rappresentano le varie tipologie di mestieri e professioni. Solo in tal modo si potrebbe avere una legge organica, strutturale, sostenibile economicamente e che soddisfi i lavoratori e le imprese. Purtroppo, però sono anni che si sta andando nella direzione diametralmente opposta e anche quest’anno non si sta registrando un’inversione di tendenza.
È stato intanto diffuso dall’Istat il dato definitivo sulla speranza di vita relativo al 2024, pari a 83,4 anni. Dal confronto dell’indicatore tra il biennio 2023-2024 e quello 2021-2022 sul quale si basa l’adeguamento nel 2027 dell’età pensionabile, emerge un incremento di sette mesi. Depurati dei quattro mesi di riduzione registrati durante la pandemia si evince un aumento dell’aspettativa di vita di tre mesi.
È sicuramente un’ottima notizia che pone l’Italia al terzo posto nel mondo per durata della vita, ma, dal momento che il sistema previdenziale è ancorato a questa aspettativa di vita (più aumenta la speranza di vita, più crescono i requisiti per l’accesso alla quiescenza), ciò comporterà un aumento di tre mesi per poter accedere alla pensione.
Dall’anno 2027, quindi, servirebbero 67 anni e tre mesi per la pensione di vecchiaia (uniti ad almeno venti anni di contributi o venticinque se si adoperare la previdenza integrativa per arrivare alla soglia prevista), e 43 anni e 1 mese gli uomini (un anno in meno per le donne), oltre a tre mesi di finestra obbligatoria per poter accedere alla pensione cosiddetta anticipata.
Questo a meno che il Parlamento decida diversamente come ha anticipato la Lega, non entrando però ancora nel merito della questione e non specificando se questa eventualità varrebbe solamente per la pensione di vecchiaia o anche per l’anticipata.
Sarebbe una iattura questo aumento di tre mesi dopo che per anni e con continue dichiarazioni era stato affermato da tutti i politici che si stava lavorando a una forma di flessibilità anticipata in uscita e tutti si erano dichiarati contrari alla Legge Fornero considerata troppo rigida auspicandone una significativa modifica. Da un po’ di tempo, invece, a causa dei conti non floridi della nostra economia e con l’impegno preso dal Governo di aumentare gli investimenti sulla difesa, la Legge Fornero è diventata improvvisamente “la legge che ha dato stabilità ai conti economici della previdenza e dato equità e sicurezza alle nuove generazioni”.
Peccato però che gli italiani sono sempre più vessati, hanno retribuzioni molto basse che poi si riversano su pensioni ancora più basse (la media attuale è di circa 1.250 euro lordi), le donne hanno pensioni il 40% più basse degli uomini, gli aumenti delle pensioni ogni anno sono di pochi euro al mese, cosa che non permette una volta lasciato il mondo del lavoro di avere una vita decorosa soprattutto nel periodo della vita in cui si è più fragili e si ha più necessità di aiuto in ambito sociale e sanitario.
Guardando ai primi sei mesi dell’anno, l’Inps ha fatto sapere che le pensioni anticipate sono diminuite del 17% rispetto all’anno precedente, un dato che conferma come gli italiani cerchino di rimanere il più possibile al lavoro a causa di assegni previdenziali troppo bassi. Interessante anche il dato fornito sul gender gap: gli assegni medi mensili lordi degli uomini sono stati pari a 1.457 euro, mentre le donne hanno percepito in media 1.033 euro con una differenza di oltre il 31% a favore degli uomini dal momento che le donne hanno spesso carriere più frammentate con stipendi mediamente più bassi.
Andando ad analizzare gli istituti che andranno in scadenza al 31 dicembre 2025, si può affermare con una certa dose di sicurezza che l’Ape sociale rimarrà in quanto finanziata fino al 2028, su Quota 103 invece potrebbero esserci delle novità. Si è parlato (adesso meno in verità) di Quota 41 flessibile costituita da 41 anni di contributi sommati a 62 anni di età con penalizzazione del 2% annua a decrescere dai 67 anni (10% massima penalizzazione) migliorativa rispetto all’attuale che prevede tuto il calcolo effettuato col sistema contributivo.
Il sottosegretario al Lavoro Durigon, poi, ha lanciato un’ulteriore proposta per anticipare a 64 anni la possibilità di uscire dal mondo del lavoro: utilizzare il Tfr per raggiungere la soglia minima di tre volte il trattamento minimo (circa 1.616 euro lordi) uniti a 25 anni di contribuiti anche per chi si trovasse nel sistema misto e quindi con contributi versati anche prima del 1996 a condizione di calcolare anche in questo caso l’assegno previdenziale col meno favorevole sistema contributivo. In pratica come già avviene da quest’anno per i contributivi puri (versamenti dal 1996), che possono usare la previdenza complementare per raggiungere la soglia di tre volte il minimo per uscire dal mondo del lavoro già a 64 anni.
Su Opzione donna va ricordato che con le ultime drastiche restrizioni – caregiver, o invalide almeno al 74% o licenziate con tavolo di crisi aperto al Mise, che abbiano almeno 35 anni di versamenti e 61 anni d’età (60 con un figlio, 59 con due o più figli) – ha visto ridursi di oltre il 70% il numero di accessi (nei primi sei mesi del 2025 sono state appena un migliaio, mentre nel 2024 erano state più di 3.500, nel 2023 circa undicimila e nel 2022 prima delle restrizioni oltre 23.000).
Questi numeri sconfortanti e che di fatto hanno cancellato la possibilità per le donne di uscire prima dal mondo del lavoro, hanno in un primo momento portato il Governo a pensare a una sua cancellazione totale, salvo poi (sempre lo stesso Durigon) parlare invece di un rafforzamento dell’istituto senza spiegare però in che termini si volesse attuare il tutto.
Molto interessante sarebbe invece, se ne è parlato nel caso di Quota 41 flessibile, considerare anche l’Isse, e sarebbe la prima volta nel nostro ordinamento previdenziale, per diminuire o azzerare eventuali penalizzazioni sull’assegno previdenziale.
In ogni caso come si può vedere è un quadro non completamente soddisfacente per quanto riguarda la previdenza in Italia, dove è necessario dal 1°gennaio 2026 trovare anche circa cinque miliardi per la perequazione delle pensioni e almeno tre o quattro per creare una pensione di garanzia per chi ha carriere discontinue e frammentate, aumentare le pensioni minime e diminuire il “gender gap” che ci pone agli ultimi posti nell’Ue.
mauromarinoeconomiaepensioni@gmail.com
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