RIFORMA PENSIONI/ Il problema “non detto” del ricalcolo contributivo

- Giuliano Cazzola

Tra le proposte di riforma pensioni ce ne sono alcune che prevedono il ricalcolo contributivo dell'assegno. Che hanno però un importante limite

calcolatrice_economia_pixabay (Pixabay)

RIFORMA PENSIONI E PROBLEMA DEL RICALCOLO CONTRIBUTIVO: LA PROPOSTA DI TITO BOERI

Nel dibattito sulla riforma pensioni ogni tanto fa capolino il cosiddetto ricalcolo secondo il metodo contributivo anche le per quote di anzianità contributiva regolate dal calcolo retributivo. Sappiamo che questa disciplina è vigente nel caso di Opzione donna (58 anni di età e 35 anni di versamenti) mentre in passato è stata usata in alcune fattispecie di totalizzazione. Ma si è trattato, sempre e comunque, di scelte volontarie compiute dagli interessati, non modifiche forzate, apportate ora per allora. 

Le ipotesi prevalenti chiamano in causa misure di ricalcolo da applicare in fattispecie di pensionamento anticipato con requisiti inferiori a quelli ordinari vigenti fino al 2026 (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne a prescindere dall’età anagrafica). Ma vi è sempre qualche “anima bella” che rilancia sull’applicazione del ricalcolo contributivo a tutte le pensioni a regime misto o quanto meno alle più elevate. La proposta più organica fu avanzata dall’Inps quando era Presidente Tito Boeri, in un documento (“Per equità non per cassa”) che conteneva addirittura un progetto di legge con tanto di relazione tecnica ed indicazione degli effetti economici, dei costi e dei risparmi. L’articolo 12 affrontava il problema del ricalcolo. 

Art. 12 

(Ricalcolo trattamenti in essere, inclusi vitalizi) 

  1. Gli importi delle quote retributive delle pensioni liquidate a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria, sono rideterminati applicando alle quote retributive una percentuale di riduzione pari al rapporto tra il coefficiente di trasformazione relativo all’età dell’assicurato al momento del pensionamento e il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età riportata nella tabella A allegata alla presente legge per ciascun anno di decorrenza. Nel caso in cui l’età alla decorrenza sia inferiore a 57 anni, deve essere utilizzato il coefficiente di trasformazione relativo a tale età. 

RIFORMA PENSIONI E PROBLEMA DEL RICALCOLO CONTRIBUTIVO: ECCO PERCHÉ NON HA FUNZIONATO

È bene spiegare quale sia il problema da affrontare e risolvere quando si vuole operare per applicare a posteriori un metodo di calcolo per il quale non erano rilevanti i requisiti contributivi. Nel sistema retributivo contava la media degli ultimi dieci anni per il calcolo della pensione; quelli precedenti valevano solo per il computo degli anni di anzianità. Pertanto applicare il calcolo contributivo all’intera anzianità di servizio richiede una procedura surrettizia, costruita a tavolino sulla base di criteri astratti, perché i coefficienti di trasformazione di cui alla riforma pensioni di Dini sono ragguagliati a un arco compreso tra 57 e 65 anni, allungati fino a 70 dalla riforma pensioni Fornero. L’articolo 12 della proposta Inps correggeva la scala dei coefficienti mettendo in relazione il coefficiente relativo all’età dell’assicurato al momento del pensionamento con un altro definito come “virtuoso” per quell’età. L’operazione poi non è mai andata in porto se non nel caso dei vitalizi degli ex parlamentari. 

Come si è calcolato il montante contributivo derivante dalla trasformazione degli elementi costitutivi del vitalizio (ricordiamolo: abolito pro rata dal 2012)? Si è considerata l’indennità vigente alla cessazione del mandato e, alla maturazione degli altri requisiti, si è calcolato su di essa il 33% (con attribuzione delle dovute ripartizioni) e si è proceduto alle rivalutazioni previste: l’ammontare ricavato è stato moltiplicato per i coefficienti di trasformazione (creati in vitro) e per gli anni di esercizio del mandato. Com’è evidente si è trattato di un montante contributivo solo virtuale, che non era affatto la somma dei contributi versati.

Tale metodologia – che richiama in un certo senso la disciplina dell’indennità di anzianità prima della riforma del Tfr – fu certamente dettata dall’impossibilità di reperire dati reali, ma non corrispondeva affatto, come si disse allora, alle “regole contributive introdotte nel nostro ordinamento pensionistico a metà degli anni ’90”. Si è trattato pertanto di un procedimento limitato ad alcune migliaia di cittadini italiani e applicato soltanto a loro, in nome di un principio insussistente di eguaglianza, dal momento che, almeno per ora, nessun cittadino italiano è stato sottoposto, obbligatoriamente, a un’operazione siffatta. Quando il Governo giallo-verde cercò di avventurarsi su questa strada anche per le pensioni superiori ad un determinato livello (5.500 lordo al mese) si trovò in grande difficoltà non solo sul piano politico (chi ha il coraggio di manomettere il trattamento acquisito secondo le regolare allora vigenti per milioni di pensionati?), ma anche su quello tecnico, applicando un meccanismo che non ha validazioni scientifiche di nessun tipo. 

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