RIFORMA PENSIONI & NUMERI/ L’ostacolo della demografia per il futuro delle pensioni

- Giuliano Cazzola

L'Istat ha diffuso ieri i dati relativi alla demografia italiana del 2021. Numeri che non trasmettono ottimismo riguardo la previdenza e la riforma delle pensioni

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Lo sappiamo da soli: il ragionamento che ci accingiamo a fare non ha base scientifica, ma è tale da dare un segnale facilmente comprensibile anche da chi pensa che le pensioni crescano nell’Orto dei Miracoli. Nel 2021 sono state erogate 359mila nuove pensioni (in larga misura di vecchiaia e anzianità). Le nuove nascite sono state 399mila. Inoltre, come ha certificato l’Istat, il record minimo delle nascite e l’elevato numero di decessi (709 mila) aggravano la dinamica naturale negativa che caratterizza il nostro Paese nell’ultimo decennio. Il saldo naturale, che già nel 2020 aveva raggiunto un valore inferiore solo a quello record del 1918 (-648 mila), nel 2021 registra un ulteriore deficit di “sostituzione naturale” pari a -310 mila unità. Tra venti e più anni, quando i nati del 2021 si affacceranno sul mercato del lavoro e si prederanno in carico, in base al principio del finanziamento a ripartizione, il pagamento dei trattamenti in vigore, i pensionati di quello stesso anno saranno in generale quasi tutti vivi e vegeti. 

Ovviamente l’obiezione è facile: non ci sono pensionanti, né contribuenti di annata. I pensionati del 2021 andranno a fare numero con quelli di prima e di dopo, mentre i nati in quello stesso anno andranno a fare parte di un mercato del lavoro in cui confluiscono più generazioni. Il fatto è che la popolazione invecchia. A generazioni caratterizzate da natalità positive che man mano si avvicinano a uscire dal mercato del lavoro subentrano generazioni con un saldo demografico negativo.

I dati confermano – per ora – l’effetto parzialmente compensativo delle migrazioni. Nel corso del 2021 si contano in totale 1.743.216 iscrizioni in anagrafe e 1.686.703 cancellazioni. Mettendo a confronto l’andamento dei flussi migratori nelle tre fasi pandemiche in cui si può dividere convenzionalmente il 2021 (seconda ondata, fase di transizione, terza ondata) con la media dei corrispondenti periodi degli anni 2015-2019 emergono significative variazioni. Le ripercussioni sono state molto più rilevanti sui movimenti migratori internazionali. Nonostante il saldo migratorio con l’estero mostri segnali di ripresa (+156 mila, quasi il 79% in più rispetto al 2020), i movimenti migratori internazionali restano al di sotto della media 2015-2019 (318 mila iscrizioni, 159 mila cancellazioni). Le iscrizioni dall’estero (286.271 nel 2021) crollano nei primi cinque mesi dell’anno rispetto alla media dello stesso periodo per gli anni 2015-2019 (-17,7%), per poi recuperare lievemente nel corso dell’anno pur restando sempre sotto la media del quinquennio pre-Covid (-3,8% nella fase di transizione e -5,3% nella terza ondata). 

Le cancellazioni verso l’estero (129.482 in totale) mostrano invece aumenti rispetto agli stessi periodi pre-pandemia: una lievissima ripresa durante la seconda ondata (+1,1%), un aumento più consistente durante la fase di transizione (+5,2%) e in corrispondenza della terza ondata (+2,6%). Se il deficit di popolazione del 2020 – scrive l’Istat – è apparso in tutta la sua drammatica portata in tutte le ripartizioni, nel corso del 2021 il Nord continua a registrare una perdita rilevante (Nord-ovest -0,3% e Nord-est -0,2%), anche se di entità inferiore rispetto a quella dell’anno precedente (rispettivamente -0,7% e -0,4%). Anche al Centro il deficit di popolazione è più basso (-0,4% contro -0,6% del 2020). Il Sud e le Isole, colpite dall’epidemia solo a partire dall’autunno del 2020, subiscono effetti più pronunciati soprattutto sui decessi. La perdita complessiva di popolazione è rispettivamente dello 0,6% e dello 0,7%, non lontana dai livelli di decremento medio annuo pre-pandemia, solo per effetto della contrazione dei trasferimenti di residenza interni e internazionali da sempre a svantaggio di queste aree del Paese. 

Alla fine di tutti i conti la realtà è la seguente: al 31 dicembre la popolazione residente in Italia è inferiore di circa 253 mila unità rispetto all’inizio dell’anno; nei due anni di pandemia il calo di popolazione è stato di quasi 616 mila unità soprattutto per effetto del saldo naturale.

Nell’Unione europea le cose vanno meglio. Secondo Eurostat, tra il 2001 e il 2020, la popolazione dell’Ue (Ue-27) è passata da 429 milioni a 447 milioni, con una crescita del 4%. Diciassette Stati membri hanno mostrato un aumento della popolazione durante questo periodo, mentre gli altri dieci hanno avuto dei cali. I maggiori incrementi sono stati registrati in Lussemburgo, Malta, Irlanda e Cipro, tutti oltre il 20%, mentre le diminuzioni maggiori sono state osservate in Lituania e Lettonia, entrambe con cali di circa il 20%. Tuttavia, tra il 1° gennaio 2020 e il 1° gennaio 2021, la popolazione dell’Ue è diminuita di 312 mila persone: in valori assoluti, il calo più rilevante è stato osservato in Italia (-384 mila, corrispondenti allo 0,6% della sua popolazione) seguita dalla Romania (-143 mila, -0,7%) e dalla Polonia (-118 mila, -0,3%). Complessivamente, nove Paesi hanno mostrato diminuzioni della popolazione nell’ultimo anno, mentre i restanti diciotto hanno avuto aumenti. La Francia ha registrato l’aumento maggiore (+119 mila, +0,2%). 

Le statistiche non spiegano a che cosa siano dovuti questi andamenti. Non c’è dubbio però che vi sia stata un’influenza decisiva degli effetti della crisi sanitaria che hanno prodotto conseguenze su tutti gli aspetti relativi alle varianti della popolazione, sia per quanto riguarda le nascite e i decessi, sia i saldi migratori, proprio perché le misure di restrizione, in aggiunta ai comportamenti spontanei hanno limitato la mobilità delle persone.

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