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Home » Cinema e Tv » ROBERT REDFORD/ L’icona della Nuova Hollywood e del cinema in cui pensare e agire

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ROBERT REDFORD/ L’icona della Nuova Hollywood e del cinema in cui pensare e agire

Emanuele Rauco
Pubblicato 17 Settembre 2025
Robert Redford sul palco dei Cesar awards nel 2019 (Ansa)

Robert Redford sul palco dei Cesar awards nel 2019 (Ansa)

Ieri è scomparso all'età di 89 anni Robert Redford, uno dei simboli della Nuova Hollywood e di un certo cinema

Negli ultimi anni, la parola “icona” e il suo aggettivo “iconico” sono stati ampiamente abusati e male utilizzati. Robert Redford, però, un’icona lo era davvero: nessuno come lui ha incarnato col suo volto bellissimo, i suoi capelli morbidi, gli occhi e la bocca che piano piano emergevano dagli scavi delle rughe, l’immagine del cinema Usa degli anni ’70, quella Nuova Hollywood di cui era l’immagine (assieme a De Niro, Hoffman e Pacino), ma soprattutto politica, fatta di attivismo e impegno, di interesse per le questioni del proprio Paese e del mondo che si riversava anche sulle scelte attoriali, in un’epoca in cui gli attori cominciavano a diventare qualcosa di più di semplici maestranze al servizio del film.


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Redford, morto nel sonno nella sua casa nello Utah all’età di 89 anni, è l’incarnazione stessa dell’anima di quegli Usa che videro nel cinema il posto in cui esorcizzare ed elaborare gli spiriti del passato e soprattutto quelli di un presente fatto di Vietnam, Watergate e fine della fiducia nella politica di Washington;


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gli anni in cui il cinema statunitense guardava all’Europa, alle nuove onde che la infiammavano e che stavano cambiando il modo di fare film, in cui la recitazione e la storia della settima arte si studiavano all’università e diventavano quindi operazioni artistiche e intellettuali (che è una parola bellissima, e mi dispiace per chi la sporca ogni giorno come fosse un insulto), capaci però di essere anche popolari, di attrarre il pubblico.

Il percorso di Redford però non fu esemplare, o meglio lo fu ma fuori dallo stereotipo: nato nel ’36, dopo un’infanzia e un’adolescenza regolari (male nello studio, bene nello sport, nelle arti, nella popolarità che da subito il suo fascino rendeva possibile), il ragazzo di Santa Monica reagì alla morte prematura della mamma andando in giro per l’Europa, come un residuo di romanticismo, facendo un “Gran tour” cercando di sbarcare il lunario come scenografo e pittore.


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Non ci riuscì, tornò a Los Angeles e si diede all’alcool a soli 22 anni; lo salvò Lola Van Wagenen, vicina di casa proveniente dallo Utah, che presto diventerà la seconda casa del futuro attore. S’innamorarono, si sposarono, lo convinse a smettere di bere e a iscriversi al Pratt Institute e all’Accademia Americana di Arti Drammatiche.

La vita del giovane Robert ovviamente cambiò, presenza e talento non ci misero molto a farsi notare, prima in ruoli dentro piccoli teatri, poi in televisione (ricevendo una nomination agli Emmy) e poi al cinema. Gli anni ’60 furono il periodo in cui i tradizionali meccanismi degli studios crollarono per dare vita a nuove sensibilità, a nuovi modi di fare cinema e Redford si inserì subito in quella temperie, partecipando nel 1966 a La caccia, diretto da quell’Arthur Penn che con Gangster Story darà il via alla Nuova Hollywood, film all’epoca sottovalutato e sfortunato e invece seminale.

Da lì, è tutta discesa: l’incontro con un regista per lui capitale come Sydney Pollack, il successo prima teatrale poi cinematografico di A piedi nudi nel parco, e poi il trionfo nel ’69 di Butch Cassidy diedero il la a una delle più belle e coerenti carriere di un attore hollywoodiano.

Redford, a differenza dei suoi compagni coetanei, non era un attore di metodo, non entrava nei personaggi con l’immedesimazione, tirando fuori dalle proprie viscere i ricordi, non viveva le vite degli altri restandone invischiato, ma cesellava i caratteri con delicatezza, precisione e molto carisma, da quel viso non si è mai visto un solo grammo di esagerazione, di overacting, ma la capacità di andare a fondo al senso dei suoi personaggi con vellutata espressività: non è un caso che il saluto muto alla fine di Corvo rosso non avrai il mio scalpo sia divenuto un meme per gli internauti di oggi, perché in quel lavoro di sopracciglia e occhi c’è il cuore del suo talento.

Negli anni ’70, come detto, Redford incarna il cinema che vuole riflettere sul Paese, sulla fine della sua “innocenza”, sui resti della “Nixonsfera” e la difficoltà di creare una nuova America. I tre giorni del condor e Tutti gli uomini del presidente fungono da spartiacque anche per la vita dello stesso attore, che nella seconda metà degli anni ’70 diventa un’attivista in senso completo, scrive pamphlet di denuncia, partecipa a sit-in e boicottaggi, rischia la galera come la sua “anima gemella” artistica Jane Fonda, assieme alla quale ritirerà il Leone d’oro alla carriera nel 2017.

Negli anni ’80, Redford comincerà un percorso di autoriflessione sulla propria figura di divo e sul tempo che scorre sul suo corpo e sul suo viso, ma soprattutto, come una sorta di Clint Eastwood progressista, diventerà l’incarnazione di una certa mitologia a stelle e strisce riletta e riscritta dentro l’occhio della contemporaneità: il western moderno e disilluso o, al contrario, i vecchi tempi della frontiera, i cardini della vecchia Hollywood – noir, sport o commedia romantica – visti alla luce della nuove consapevolezze.

Sopratutto, però, il decennio lo vede esordire come regista: Gente comune nel 1980 vince 4 Oscar – tra cui miglior film – e il suo secondo grande premio personale (il primo lo vinse come debuttante nel ’66) lo guadagna proprio come regista. A quello di attore, si affianca un percorso di regista che nel suo eclettismo, trova la coerenza nel racconto di un’America passata, in cui critica e nostalgia si danno la mano a più riprese, con perle come Quiz Show o L’uomo che sussurrava ai cavalli.

E poi non è possibile scordarsi del Sundance Film Festival, divenuto il principale festival degli Usa, creato sul finire dei ’70, ma ribattezzato come il suo personaggio in Butch Cassidy nel ’91, per dare voce e mercato alle realtà indipendenti, al cinema lontano dalle major, attraendo proprio le major a distribuire e produrre film diversi dai loro schemi: anche questa, un’opera di attivismo che Redford ha curato in prima persona fino a quando l’età e le forze glielo hanno permesso.

Perché Redford, pur diradando partecipazioni e impegni, ha continuato fino a tarda età: due dei suoi film più belli arrivano proprio nel finale di carriera, All Is Lost in cui recita da solo, su una barca alla deriva, comunicando al pubblico tutta la tragedia attraverso corpo di 77enne, gesti, viso solcato dal sole, senza quasi emettere un fiato;

Old Man & Gun, ultimo ruolo da protagonista, in cui superati gli 80 anni lascia che la sua aura diventi omaggio e celebrazione degli anni d’oro della sua carriera, con disillusione ironica degna dell’epitaffio di un divo. Uno di quelli che ha reso il cinema uno dei posti più belli in cui vivere, ma soprattutto uno di quelli più fertili dentro cui pensare e agire.

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