San Lorenzo. Una delle poche strade in cui si può respirare ancora la pace oscura dei vicoli del centro di Roma. Pochissime automobili sfrecciano con clacson gioiosi a distanza, quasi fossero un ricordo dei giorni di festa. Riusciamo a sentire addirittura i gabbiani che dal Tevere sorvolano impazienti tutto il centro storico, giù fino al lido di Ostia. Nell’attesa di incontrare i ragazzi de Il Muro del Canto cerchiamo di farci prendere per mano da quell’aria immobile, placida, estranea alla frenesia della metropoli ma aderente alla stasi notturna che da secoli caratterizza i vicoli della caput mundi.
La musica romana è disincantata, fatalista: racconta di drammi che, seppur vissuti da un punto di vista univoco, risultano universali, esemplificativi di quella che è l’idea della Roma che fu. Non si può, infatti, parlare di Roma senza aver capito quanto il romano viva nel passato, nella memoria dei suoi avi, dei suoi lares, non dannandosi l’anima per il presente e non tormentandosi nel pensiero di ciò che il futuro gli metterà dinanzi. Il continuo ripescare nella tradizione è il modo di curare il proprio dolore: sentimenti già provati, stornelli che hanno già accomunato generazioni di disillusi capitolini dediti all’estrosità del pentagramma. C’è chi per curare i patemi d’animo piange, si straccia le vesti e c’è chi, apparentemente in modo superficiale, ci canta su in dialetto. Il Tevere, il ponentino, le donne di strada, le osterie, il silenzio di una città sempre in movimento che d’improvviso diventa paese all’ora di cena. Roma è il luogo delle doppiezze, delle antitesi plateali, degli scontri veraci tra cittadini: il luogo più bello del mondo, a patto di essere nati e cresciuti al sole di Via dei Fori Imperiali. Giulio Cesare, Trilussa, Belli. Prima col Papa, poi coi francesi e perché no, se arrivano gli austriaci, anche con loro. Basta che chi regge la Città Eterna lasci in pace i cives e il loro malessere disilluso che tanto li rende unici al mondo. Roma, città aperta da sempre, sciama nel sottobosco di una magia unica, impercettibile agli occhi degli avventori, comprensibile solo se si possiedono gli occhi genuini della plebe capitolina.
Scendiamo giù lungo una discesa che porta ad un garage adibito in sala prove. Sorrisi cordiali, un paio di sigarette, storie raccontate tra amici che, conoscendosi da una vita, non hanno nulla da nascondersi. E i romani tra loro si conoscono da una vita, senza nemmeno il bisogno di presentarsi. Subito siamo diventati ospiti graditi in uno spaccato della quotidianità di un gruppo di ragazzi che amano narrare le gesta di cittadini romani, uguali oggi come al tempo del risorgimento. Il Muro del Canto – Daniele Coccia, voce e testi; Alessandro Pieravanti, percussioni e racconti; Ludovico Lamarra, basso; Eric Caldironi, chitarra acustica; Giancarlo Barbati, chitarra elettrica; Alessandro Marinelli; fisarmonica e romanità – è una delle realtà più brillanti del panorama della musica romanesca.
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Sei luci bianche tendenti al rosa, strumenti musicali addossati con ordine a dei muri insonorizzati e il calore della musica popolare nel cuore. Una band romana a tuttotondo, dunque. Cordiali, simpatici e pieni di premure nella fase compositiva. E la loro musica è come loro: educata, gentile e coinvolgente. Una band con un suono che trascende dalle coordinate estetiche, riuscendo a proiettare l’ascoltatore nell’universo complesso della plebe romana, musica eterna come si ammantasse della stessa aura sacrale del Colosseo, di Francesco Totti e di San Giovanni in Laterano. Tra una canzone e l’altra c’è qualcuno che racconta dell’ultima esibizione dal vivo all’Init di Roma o dell’esperienza fatta presso la redazione di Radio Rock, un altro racconta il suo turno da piantone davanti ad uno dei Ministeri che sono presenti a Roma. Vita reale, quotidiana, come quella di alcuni inediti brani, non presenti nel loro EP pubblicato recentemente.
Un esempio ne è “L’Orto delle Stelle”: galeotti, l’immancabile Tevere che cadenza le giornate dei suoi concittadini, un paio di bestemmie taciute da una fede in Dio che emerge dalla visione valoriale d’insieme della vita di ognuno dei personaggi che si muovono nei testi di Daniele Coccia. Chi vive d’amore, d’altronde, non può che vivere con la “fede” nel cuore. Nessuna penitenza, però, è l’amor perduto che ispira nella sofferenza. La guerra, le donne, la quotidianità faticosa e odorosa, una fisarmonica (quella dell’orecchio assoluto di Alessandro Marinelli) e una chitarra acustica che diviene ben presto un mandolino contemporaneo.
Altro brano inedito è “Serpe in Seno”, a nostro giudizio la canzone più riuscita di tutte quelle che abbiamo ascoltato dal vivo nella loro sala prove: “Le miserie di questa città me rimbarza e nun provo pietàI” ma, nella magia delle contraddizioni romanesche, “è da stronzo girasse di là”. Il ritornello, come quasi in ogni loro composizione, sfoga la loro indole rock con il contraltare dei racconti di Alessandro Pieravanti che li riporta immediatamente a passeggiare nel sole di Piazza Navona. Sono le riuscite storie dei protagonisti dei testi de Il Muro del Canto ad essere la caratteristica unica della band: la voce, gli strumenti sono “solo” il mezzo per ottenere una narrazione efficace e vitale.
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Nessuna cover ammiccante a giovani sbarbati, solo l’immensa Gabriella Ferri de “Le Mantellate” con l’assenza di tutto tra le mura di Regina Coeli e la solitudine delle emozioni romane. Donne che hanno perduto il sentiero della loro vita ma pienamente coscienti a loro stesse: il riconoscimento delle loro colpe che assumono l’aspetto di fatalità dovute ad un’ineluttabile volontà superiore.
Le ambiguità e la doppiezza dell’essenza romanesca emergono pienamente in una linea diretta che parte da Adolfo Giaquinto e Nino Ilari, passa per Meo Patacca, Gabriella Ferri, Claudio Villa, Rugantino e arriva oggi agli Ardecore e al Muro del Canto. Il delinquente bono de core, il bestemmiatore credente che percepisce come nessun altro la presenza di Dio, il centro storico che si trasforma in paesino dove tutti si conoscono, il Tevere che lungo il suo corso è testimone di tutti i fatti, le serenate e le maledizioni del popolo romano.
“Il Muro del Canto” è Roma in tutte le sue spontanee ambiguità che, incomprese se percepite dall’esterno del Grande Raccordo Anulare, formano l’identità secolare di un popolo fiero, disilluso ed eternamente ispirato. Il rimedio a tutti i mali diviene il canto e la condivisione del dolore con una comunità partecipe, rendendo così il proprio malessere una sofferenza collettiva, una catarsi popolana, una pathei mathos dialettale. Non è un caso che questa musica folk venga individuata come “musica popolare romana”, aderente quindi ad una collettività intera.