Altra serata. Sempre Roma e le sue luci soffuse di inizio autunno. L’imbrunire: la parvenza di quello che un tempo veniva chiamato Ponentino. Oggi un alito di vento color pulviscolo. Il turno di fine lavoro riempie il lungotevere altezza Santa Sabina. Basta una sirena azzurra e un’automobile ministeriale, blu cangiante e finestrini offuscati, a farli spostare tutti. Io, a piedi, fluisco abilmente tra le molecole umane che riempiono le umide strade in zona Teatro Marcello. Un sguardo in alto quando un piccolo squarcio di cielo sopra la testa è rosa vivido. Qualche nuvola nera in direzione Castelli Romani. Piazza Venezia. La luce del Milite Ignoto è garrula tra le prime gocce di pioggia. Smette subito.
Due concittadini, fucile lungo il braccio, gli rendono tributo immoto. Un semaforo rosso, un’altra sigaretta. Calpesto a lunghe falcate il bianco delle strisce pedonali, come fosse arrivato carnevale e i suoi filanti colori pastello. Via del Corso è piena di gente. A destra, radente le vetrine, una mamma che coccola il pargolo che urla mentre fissa, ciancicato e viso paonazzo, un punto che non esiste. A sinistra si trascina un carretto con cavallo al traino. Una coppia del nord Europa osserva come in sogno la nostra realtà quotidiana. La loro meraviglia non è meno fastidiosa del giapponese che davanti a me vuole comprare la maglietta rossa del calcio, orrendamente mutata in un capo d’abbigliamento tarocco. A destra Via dei Condotti, lì in fondo Trinità dei Monti. In un piccolo anfratto, proprio in zona Piazza di Spagna, laddove la romanità è frenata dall’infinità della folla un gruppo musicale intona un canto che colgo come nessun altro.
Questa è la magia degli Ardecore: fotografare Roma, ricreare un ambiente così complesso con le semplici note della tradizione. Suggestionarci e farci riconoscere una città dalle loro voci, dal magniloquente dialetto trasteverino. Il primo album della band romana (anno domini 2005), il cui fulcro gira attorno ai componenti degli Zu – Pupillo-Battaglia-Mai – e al chitarrista dei Karate, l’italoamericano Farina, è da considerare come un emblema di quello che è la musica romanesca.
Reinterpretando in un folk comunque contemporaneo, gli Ardecore, nel loro omonimo disco, effettuano un opera di ricerca unica tra le canzoni più popolari e rappresentative della tradizione popolare: “Madonna degli Angeli”, già di Buti, Tajoli e Claudio Villa, diviene inno di una romanità triste, familiare, struggente nel dramma della morte e coglie pienamente la disillusa comunicatività di un popolo. Appassionante la canzone “dei carcerati” di “Come Te Posso Amà” e la più conosciuta “Barcarolo Romano”, ballata fatalista tramandata fino a noi da nomi quali Gabriella Ferri, Claudio Villa, Gigi Proietti e Lando Fiorini: radiografia di come nella disperazione di possa gioire perché ciò che ci capita, comunque si voglia interpretare i fatti, sono “cose che capitano ai vivi”. E la pace la si può trovare soltanto tra le spume del Tevere ingrossato dalle piogge d’ottobre; tra le fronde di Villa Borghese; all’ombra, seduto sui gradini di Santa Maria del Popolo.
«Ner mentre sfilerà la processione / Tu m’hai da dì se ancora me voi bene / Tu m’hai da dì si sei la stessa quanno / Te sospiravo cantanno così / Fior de limone…» il testo di “Madonna dell’Urione” – altra classica “de Regina Coeli” – continua nella disperazione lucida della certezza di un tradimento perpetuato ai danni di un carcerato e della consolazione calda di una fede incrollabile tipica del galeotto “bono de core”.
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«Cor petto alleggerito da ‘na donna / Io porto la madonna co’ mme / Fior de limone, pregate assieme a me gente cristiane / Perchè ho sfuggito er male e l’occasione / Sonate a stesa tutte le campane / Me benedice mamma che guarda dar cantone». L’onnipresenza della speranza, lo sguardo di chi ci protegge da lassù. La garbata felicità nel dramma: ci possiamo ancora perdere nei vicoli di Francesco a Ripa e sentirci di nuovo vivi. La città diviene tetrafarmaco, cura che previene i mali che capitano nella capitale. La bellezza della città come consolazione a tutto, anzi, come rimedio a qualsiasi accadimento. Un fratello, una spalla d’amico, un abbraccio eterno quello di Roma che non abbandona mai i suoi cittadini.
“Lupo De’Fiume” – da non perdere l’interpretazione “classica” di Alvaro Amici – in cui «il destino che gioca […] ha scelto già er momento prepotente»: un barcarolo si vede portare via il figlio tra i flutti del Tevere. Nel fiume lo raggiunge anche il padre che soccomberà alla potenza della corrente, abbracciando, ormai cadavere, il suo pargolo morente. Struggente narrazione reinterpretata in un delicato quanto oscuro jazz. Sempre in “Ardecore” anche “La Popolana”, l’odorosa “Fiore de’Gioventù”, e “L’Eco der Core” scritta da Petrini e Balzani nel 1926, marcia allegra e sospiro appassionato d’amore, la cui narrazione mette in risalto come il mondo femminile sia costante d’ispirazione per la musica popolare romana. Chiude questo gioiello del revival degli Ardecore “Serenata de’Paradiso”, dichiarazione d’amore dei tempi che furono.
Gli Ardecore, per una corretta interpretazione della band, hanno abbandonato già al secondo album “Chimera” (2007) questo percorso stilistico/antropologico, avvicinandosi sempre di più ad un folk popolare condito da un’elettricità crescete, ad un rock che, con la sacralità della tradizione romana, poco ha da spartire. Recente è l’uscita di “San Cadoco” (fine 2010).
Probabilmente “Ardecore” è ill disco che ogni giovane romano dovrebbe sentire per riuscire a comprendere che cosa è veramente la romanità. Un documento per la memoria collettiva, spiegazione di chi sono veramente i cittadini di Roma e cura per cuori nostalgici dei tempi in cui “popolare” era un attribuzione di cui fregiarsi, con orgoglio.