Roma, Università di Tor Vergata, 14 – 22 marzo. Chi è salito al primo piano di Lettere e Filosofia in questi giorni ha visto che stava accadendo qualcosa. A passar dritto si tratterebbe di cinque gigantografie, trentaquattro pannelli in fila, i pannelli della mostra itinerante “Nulla va perduto. L’esperienza di Pavel Florenskij”, inaugurata il 14 marzo dal curatore e grande esperto di Florenskij, il professor Lubomír Žák, e aperta per una settimana ai numerosissimi visitatori arrivati a Tor Vergata. Basta fermarsi qualche minuto in più, o assistere alle visite guidate offerte da otto studentesse e studenti di Filosofia, uno di Fisica, per accorgersi che “dietro” questi pannelli non c’è solo un’iniziativa culturale ma qualcosa di inconsueto, di diverso e interessante.
Che cosa mette insieme nove universitari – tutti provenienti da regioni e storie diverse, esperienze diverse, – tra loro, tra noi? E cosa mette insieme noi e un uomo di cento anni fa, russo, come Pavel Florenskij? Due delle tante domande che, attraversando il corridoio in cui la mostra è stata allestita, ci si poteva fare, ci si è fatti.
La mostra ripercorre l’esperienza umana, spirituale e scientifica di questo straordinario personaggio di difficile – quasi impossibile – definizione, tanto è stata vasta la sua attività, e tanto intensa la sua vita; una vita che in questi giorni ci è diventata familiare, vicina, prossima forse più di quella di alcuni che incontriamo di persona. Una vita di cui si è parlato, discusso, su cui ci si è confrontati nel periodo precedente alla mostra, preparando le visite guidate, e che è stata il fil rouge dei più diversi momenti, dalle telefonate a tarda sera ai paragoni con gli esami che stiamo studiando, dall’organizzazione tecnica ai pranzi in Università, quando tra la confusione della affollatissima mensa ci si ritrovava a discutere delle scoperte scientifiche di Florenskij, della sua incrollabile “percezione del mistero”, di come sia possibile restare vivi e sperare anche dentro a un gulag.
La mostra è stata di fatto l’occasione per accorgersi che è possibile, e di come sia possibile, vivere l’Università: le visite guidate sono diventate, per una settimana, impegno quotidiano; il “foglio-turni” è stato, già dal secondo giorno, ripiegato: nessuno se ne andava dalla mostra. Chiunque sia arrivato o passato su quel corridoio si è accorto di quest’aria quasi di festa, fatta di divertimento e contentezza, e al contempo di serietà con ciò che si stava facendo, in cui non sono mancate neppure alcune polemiche da chi aveva qualcosa da obiettare: segno, anche questo, che c’era visibilmente qualcosa in atto, senza cui non ci si prende la briga di fermarsi a discutere.
Ma, soprattutto, chiunque sia arrivato o passato su quel corridoio si è imbattuto in uno “sguardo di simpatia umana”, forse il tratto più evidente dei nostri giorni: nel posto dove si passano anni della propria vita, ma troppo spesso ridotto a un banale “esamificio” nella perenne attesa di qualcosa che sarà, che accadrà, che dovrà venire…la possibilità di fare, di costruire, di vivere qualcosa che è adesso, che è presente, che ci mette in gioco totalmente, che ci fa essere e scoprire noi stessi. Che questa simpatia umana non sia legata al “vendere un prodotto” ma a qualcos’altro è evidente dalle reazioni dei visitatori: Lorenzo, un giovane lavoratore, viene venerdì a vedere la mostra, e dopo due giorni torna portandosi dietro quattro amici per farla vedere anche a loro; una ragazza arriva dicendo “Ho solo un quarto d’ora e poi devo scappare, possiamo fare una visita veloce?”: dopo cinquanta minuti è ancora lì, commossa davanti ai pannelli sul gulag; così Nicola, un pensionato attento e curioso, che sul finire della visita, alle 13:15, dice: “Avevo appuntamento con mio fratello a mezzogiorno, ma che fa!? Preferisco stare qui a sentire voi, perché queste cose bellissime bisognerebbe sempre ascoltarle per vivere!”.
Significativi anche i tanti commenti sul guest book, fra i molti “grazie” e le frasi entusiaste: “Grazie per la bellissima esperienza”, scrive Luciana; “Mi sono avvicinata ad un pannello per un aforisma che avevo letto e ho finito con il commuovermi per un uomo che ho scoperto”, scrive Arianna; oppure Pamela, che acutamente dice: “Grazie per la possibilità di conoscere Florenskij. Un’occasione per conoscere qualcuno può essere anche questa: non di persona, bensì attraverso le persone (persone come voi!)”. Potrebbe sorgere il dubbio di quale sia la differenza tra il leggere un libro, leggere il catalogo della mostra e il parteciparvi: difficile rispondere in modo teorico, ma questa differenza è stata evidente in ogni faccia, in ogni sguardo, in ogni domanda e dialogo tra noi e chi abbiamo incontrato. E’ la differenza, come ci dice il nostro professore di Storia del pensiero teologico durante una lezione, che “il semplice leggere non porta, perché non ci sarebbe il calore, la freddezza, l’incertezza di quando anche solo da lontano ci si sfiora umanamente”. Raccontando Florenskij, spiegando il suo desiderio di una conoscenza “relazionale”, la sua inquieta ricerca della verità, la sua profonda concezione dell’amicizia, la sua grande umanità fin dentro l’esperienza più dura del martirio, abbiamo nello stesso tempo sperimentato quella passione, quella possibilità di amicizia, quella conoscenza che è davvero dentro un rapporto, e che per questo può essere un avvenimento. E se è vero che dietro quei pannelli c’è stato più di una “iniziativa culturale studentesca” è altrettanto vero che si è trattato di una vera iniziativa culturale, in cui il vertice della cultura è la disponibilità, l’attenzione, un orizzonte integrale di conoscenza: in una parola, l’incontro con chi si ha davanti, dallo studio di Florenskij a quello con i relatori che hanno inaugurato la mostra, dall’incontro tra noi studenti a quello con i professori che ci hanno aiutato e sostenuto, passando attraverso i visitatori e arrivando alle collaboratrici ausiliari dell’Università, che il giorno dopo la fine della mostra chiedono: “Ma è già finita? Peccato, prima il corridoio era più bello”.
Oltre tutto quello che si può dire e raccontare, si tratta davvero di questo, di una bellezza che coinvolge tutti, che desta una curiosità e che spezza il corso delle “logiche normali”. Di solito gli eventi iniziano con un progetto, con delle domande e terminano con delle risposte; sono grata nel constatare che noi abbiamo iniziato a partire da alcuni legami e da alcune domande, e che, adesso che la mostra è finita, ci ritroviamo con domande forse diverse ma ancora più grandi, più vive: domande su Florenskij, sul nostro studio, sui rapporti, sulla vita. E con la curiosità di scoprire cosa vorrà dire che “nulla va perduto: tutto passa, ma tutto rimane, niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte”.
(Emanuela Tangari)