La Russia si rilancia in Africa: offre sostegno militare e centrali nucleari in cambio di risorse minerarie. Ma non riesce a garantire la sicurezza
Offrono sicurezza attraverso compagnie militari private, ricevendo in cambio concessioni minerarie per aumentare la loro disponibilità di risorse e impedire che i Paesi concorrenti si possano approvvigionare. La strategia dei russi in Africa, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSI, Centro Studi Internazionali, punta su questo e sulla diplomazia atomica, proponendo la costruzione di centrali nucleari.
Sono sempre più presenti in un continente diventato terra di conquista per le materie prime, soprattutto quelle critiche, in una competizione nei confronti degli USA e dell’Occidente in generale. Un ostacolo, in particolare in Libia, anche per l’Italia e il suo Piano Mattei.
Putin ha annunciato che si terrà in Africa la conferenza ministeriale del Forum di partenariato russo-africano. Qual è la strategia di Mosca nel continente?
La strategia dei russi ricalca, per alcuni aspetti, il modo di fare dei sovietici. Seguono una policy di non ingerenza negli affari interni del Paese e forniscono tutto l’appoggio militare ed economico. Nella sostanza, non mettono condizioni sulla governance o sul rispetto dei diritti umani. Io lo chiamo il “pacchetto Wagner”, richiamando il nome della private military company russa oggi diventata Africa Corps.
Perché è importante il riferimento all’ex Wagner?
I russi usano compagnie militari private che hanno sostanzialmente tre scopi: mettere in sicurezza i siti sensibili, proteggere gli autarchi e fornire supporto al combattimento e addestramento delle forze armate di questi Paesi, di solito impegnati contro forze ribelli o contro il terrorismo.
I Paesi africani come pagano questi servigi?
Accordano alle agenzie e alle imprese di Stato russe concessioni per l’estrazione di oro, uranio, diamanti, a seconda di quello di cui dispongono. E siccome in molti casi questi Paesi subiscono delle sanzioni, l’universo russo dà la possibilità di eluderle, commercializzando le materie prime attraverso i canali del contrabbando. Ai Paesi che si trovano in un conflitto e non possono esportare oro o diamanti perché sottoposti a regimi di interdizione, i russi mettono a disposizione i loro canali sommersi, anche malavitosi, per immettere la merce sul mercato ripulendola.
Dal punto di vista geopolitico cosa comporta questa strategia?
I Paesi africani a cui si legano i russi spesso sono governati da giunte con un pedigree politico molto particolare o da dittatori, che trovano in Mosca un interlocutore comunque prestigioso, che tende a difenderli, a dar loro legittimità internazionale. In cambio, alle Nazioni Unite prendono le difese della Russia, soprattutto per le votazioni in Assemblea Generale. Con questa strategia non ci sono grandi possibilità di sviluppo: i russi non impegnano i loro fondi di Stato, né la potenza della loro manifattura, come fa la Cina. Ma c’è un’altra modalità con la quale il Cremlino lega a sé i partner africani.
Quale?
La cosiddetta diplomazia atomica. Mettono a disposizione il loro know-how per la costruzione di centrali nucleari e la formazione del personale locale. Una leva non solo economica: costruendo una centrale si crea un legame dal punto di vista ingegneristico e tecnico che diventa, gioco forza, anche politico. La Russia, comunque, non gioca nella Serie A della penetrazione in Africa, ma in Serie B, e anche qui non è l’attore più aggressivo. La Cina è una categoria a parte, la Turchia fa molto meglio, l’India si sta espandendo velocemente, le monarchie del Golfo hanno un’ottima presenza: i russi giocano solo in contropiede.
La loro presenza potrebbe, comunque, ostacolare la realizzazione del Piano Mattei? Possono mettere i bastoni fra le ruote all’Italia?
Rispetto all’Italia, hanno il vantaggio di parlare con soggetti che noi non potremmo accostare, perché si disinteressano del rispetto dei diritti umani. Però non propongono un modello di sviluppo concreto, né progetti di sviluppo nazionale, cosa che il Piano Mattei prova a fare, puntando a produrre stabilità attraverso il miglioramento dell’economia. Sono nostri competitor, esercitano un’influenza e, dove diventiamo un ostacolo, non ci favoriscono. Basta pensare alla Libia, in cui l’Italia ha un approccio pragmatico per ragioni di difesa nazionale, ma dove i russi hanno il loro uomo, Haftar, che non è ben visto da Roma.
In questo momento il Cremlino sta consolidando la sua presenza in Africa o è troppo impegnato con la guerra in Ucraina?
I russi sono un po’ in difficoltà perché non hanno mantenuto le promesse a livello securitario. In Mali, in Burkina Faso, il terrorismo continua a imperversare e non è che la presenza russa abbia migliorato il quadro. La guerra in Ucraina ha impedito di aumentare il volume dell’impegno in Africa, però in generale il modo di fare dei russi non arriverà mai a sconfiggere il terrorismo: prevede l’uso della forza bruta, e la storia dimostra che i terroristi non si sconfiggono così.
Dove si espande la presenza russa?
La Russia è presente in maniera importante in Libia, in Mali, Burkina Faso e Niger. Anche nella Repubblica Centrafricana. Ha interessi in Sudan, Uganda, Repubblica Democratica del Congo e punta su Mozambico e Angola. Non è facile espandersi perché la concorrenza è tanta e i russi devono fare i conti con dei limiti numerici: non possono dislocare decine di migliaia di uomini nel continente, con la logistica che ne segue, se hanno una guerra iper sanguinosa alle porte di casa.
Negli ultimi tempi si parla di una recrudescenza del terrorismo islamico, in particolare nella zona del Sahel. Un fenomeno sottovalutato?
Nel Sahel, in particolare, certi episodi non sono mai cessati: i russi, da questo punto di vista (come i francesi in passato), non riescono a incidere. Non si può pensare di battere le milizie jihadiste a casa loro, nel deserto, fidando solo sulla superiorità tecnologica. La Russia, ufficialmente, usa compagnie militari private e si fa pagare ogni cosa con le concessioni minerarie: ha trovato una chiave per garantire la sostenibilità finanziaria dell’operazione. Magari non riesce a sconfiggere il terrorismo, ma tiene in piedi il dittatore di turno.
Al di là delle ultime esternazioni di Trump su Putin, USA e Russia hanno riallacciato i rapporti: se ne vedono le conseguenze anche in Africa?
Fino alla guerra civile somala e alla morte dei soldati americani a Mogadiscio, gli Stati Uniti covavano il desiderio di missioni di pace importanti per stabilizzare alcuni teatri ritenuti cruciali. Dopo, per loro, l’Africa è diventata uno dei campi dove si combatte la global war on terror post 11 settembre. L’approccio è questo: accordi bilaterali con le forze armate locali, prevedendo addestramento, fornitura di personale e presenza di piccole unità, soprattutto di forze speciali americane, il cui compito principale è uccidere i terroristi legati a ISIS e Al Qaeda. Già con Biden, e ora con Trump, stiamo assistendo anche a un tentativo di siglare partnership per le materie prime critiche. Da anni si discute delle miniere del Malawi di terre rare, dove però i progetti corrono un po’ a rilento.
L’approccio americano al continente sta cambiando?
Una cosa nuova che ha spiazzato un po’ tutti è stato il memorandum, non ratificato, proposto dalla Repubblica Democratica del Congo agli Stati Uniti. Il presidente congolese ha chiesto agli USA di intervenire nel proprio Paese con un contingente militare per sconfiggere i ribelli dell’M23, che hanno occupato parte del territorio nell’est del Paese. In cambio viene offerto un accordo sulle materie prime critiche sul modello dell’Ucraina, molto conveniente per gli americani. Il Dipartimento di Stato, tuttavia, è scettico: ha paura di un altro Afghanistan o Iraq.
L’Africa è diventata terreno di conquista per le “terre rare”?
Anche alla Russia l’Africa serve per avere accesso alle materie prime critiche di cui magari non dispone in casa, ma soprattutto per interdire l’arrivo di altri competitor. Parlo soprattutto del blocco euroatlantico.
(Paolo Rossetti)
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