Durante la guerra di Crimea del 1855 le suore vincenziane, al seguito dell’esercito del Regno di Sardegna, curarono anche russi
Ieri, approfittando della bella giornata di sole e dell’ingresso gratuito ai musei nelle prime domeniche del mese, ho fatto un giro per le Gallerie d’Italia in piazza della Scala. Naturalmente sono andato a vedermi anche uno dei miei quadri preferiti. È la monumentale rappresentazione della battaglia della Cernaia (1855), eseguita da Gerolamo Induno, che aveva partecipato personalmente all’evento. In questo senso il quadro ha anche il valore di una sua testimonianza.
Induno faceva parte di quel corpo di spedizione mandato dal Conte di Cavour in Crimea a combattere insieme ai francesi e agli inglesi, in sostegno all’Impero ottomano minacciato dall’Impero zarista. La necessità della guerra era stata sostenuta dal patriarcato di Mosca per liberare luoghi santi della tradizione cristiana dal dominio turco. Francesi e inglesi intervennero allora a sostegno degli ottomani, ma anche per il particolare interesse strategico che aveva, e che ha, la Crimea. Gli italiani, o meglio sarebbe dire i sardo-piemontesi, si erano aggregati per rivendicare un ruolo internazionale al piccolo Regno di Sardegna che stava per trasformarsi nel Regno d’Italia.
Il quadro dell’Induno, che rappresenta il momento della vittoria dopo la battaglia, nella parte sinistra, in basso, mostra delle suore vincenziane, le Figlie della carità, che assistono i feriti. Il bello è che questi feriti, lo si può notare dalle loro divise, sono russi, cioè i feriti del nemico. È un fatto storico che le 76 suore vincenziane invitate a partecipare come infermiere alla spedizione dal generale Durante, si prodigarono ad assistere tutti i soldati, indipendentemente dall’esercito a cui appartenevano. La cosa fu riconosciuta non solo dalla famosa Florence Nightingale, ma anche dallo zar, che addirittura ebbe a mostrare il loro esempio alla Chiesa russa ortodossa, pretendendo che facesse altrettanto.
Nella spedizione militare italiana ci furono solo 7 caduti in battaglia e 170 feriti, ma ben 1.300 soldati morirono per la terribile epidemia di colera che colpì l’esercito. A causa della stessa malattia morirono anche 30 suore, che non si erano certo risparmiate nel curare gli ammalati.
Raccontare questa storia documentata negli archivi militari e non solo nel quadro delle Gallerie d’Italia, può sembrare quasi raccontare una favola. Invece questo è un esempio storico di come la carità suscitata dai santi, come Vincenzo de Paoli, può costituire un contributo concreto e positivo alla società civile, soprattutto in momenti drammatici. È significativo in questo senso che, quando nel 1868 il parlamento, ormai italiano, discusse la proposta di eliminare le suore di carità dagli ospedali, fu proprio il generale Lamarmora, comandante della spedizione in Crimea, a insorgere in Senato e a ottenere che le suore restassero innanzitutto per il bene degli ammalati.
Oggi ci sono poche suore, anche negli ospedali, almeno in Italia. Non poche le possiamo trovare in Paesi di missione, spesso in situazioni molto rischiose. Sono la testimonianza vivente che, grazie a Dio, non tutto nella Chiesa è segno di decadenza.
Inoltre a tante giovani future infermiere che oggi non sembrano avere la prospettiva di una vita facile, anche perché spesso senza un giusto riconoscimento da parte della società, queste suore lasciano comunque un esempio. In un momento in cui si insegna quasi dappertutto a odiare il nemico di turno, il sacrificio delle suore vincenziane non può non far pensare alle autorità competenti un modo per assicurare l’assistenza a feriti e malati che non sia di parte.
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