Giorgia Meloni è riuscita, per ora, a lanciare l’ultima palla nel torneo della lunga estate calda del salario orario minimo. Il passaggio al Cnel è stata una mossa astuta, perché le proposte che emergeranno avranno un carattere di “neutralità” e non saranno attribuibili direttamente né alla maggioranza, né al Governo. Poi, se il contributo avrà successo, verranno chiamate in causa le parti sociali più rappresentative che fiora sono state a guardare (le associazioni datoriali) oppure si sono schierate con le opposizioni (la Cgil e la Uil). Certo, il Cnel non è una terza Camera e una sua risoluzione non ha il valore di un accordo; ma le sue considerazioni non potranno essere rimosse in via pregiudiziale.
Il Presidente Renato Brunetta è una persona esperta e determinata, ma la sua iniziativa è destinata a incontrare nuove difficoltà, rispetto all’unanimità realizzata, nel voto del Consiglio, sulla Memoria depositata l’11 luglio in audizione presso la commissione Lavoro della Camera. C’è da aspettarsi, infatti, che i consiglieri di espressione sindacale siano richiamati all’ordine, allo scopo di togliere peso politico a un’iniziativa che le opposizioni non hanno condiviso. In ogni modo, il Governo, in sessione di bilancio, potrà contare su di un pacchetto di proposte per la tutela del lavoro più ampio e articolato rispetto alla sola questione del salario minimo, sulla quale le opposizioni non demordono. È in corso una raccolta di adesioni alla proposta di legge Conte (il primo firmatario del testo unificato), che, secondo gli organizzatori, ha già superato le 100mila firme. Intanto, “gli amici degli amici” pompano il più possibile i sondaggi, dai quali risulterebbe che il 75% degli italiani condivide l’introduzione di un salario minimo di 9 euro lordi orari.
Il Cnel ha ricevuto dal Governo un preciso mandato che corrispondeva al punto cruciale della Memoria. La questione salariale – è scritto – assume decisamente un ruolo importante, forse anche prioritario, ma non esclusivo; e non può essere ricondotta unicamente a un dibattito sull’opportunità, o meno, di introdurre un salario minimo legale, ma deve andare a toccare i principali problemi che ostacolano la crescita dei salari dei lavoratori in Italia. Sotto questo aspetto, occorre innanzitutto considerare – prosegue il testo – che il nostro Paese è soggetto, da tempo, a un problema di bassa produttività. Da questo punto di vista, la comparazione con le dinamiche salariali di Paesi come Francia e Germania, con un cuneo fiscale in linea o superiore al nostro, mostra chiaramente, e da tempo, come negli ultimi decenni la produttività italiana non sia cresciuta, diversamente da quanto avvenuto in altri Paesi europei.
C’è un fantasma che si aggira nella pianura nebbiosa delle relazioni industriali e che è l’immagine negletta della contrattazione collettiva. Si dice che in Italia la “copertura” contrattuale è molto elevata. I dati Ilostat la calcolano al 99%. L’indagine della Fondazione di Dublino European Company Survey 2019 la stima al 98%. Il database Ocse/Aias Ictwss considera la copertura del 100%, poiché in Italia i minimi tabellari fissati nei contratti collettivi sono utilizzati dai giudici del lavoro come riferimento per determinare il rispetto dell’articolo 36 della Costituzione relativo alla retribuzione proporzionata e sufficiente.
Il fatto è che il 17° Report CNEL di luglio ha certificato che dei 976 Ccnl relativi al settore privato, 553 risultano scaduti (57%). I lavoratori privati con un contratto scaduto al 30 giugno 2023 sono 7.732.902, il 56% del totale. Tra i settori contrattuali privati caratterizzati dal maggior numero di dipendenti con contratto scaduto domina la classifica quello del “Terziario e Servizi”, con il 96%, seguito dal settore “Credito e Assicurazioni” con l’85%. Ben diversa la situazione relativa al settore dei “Trasporti” con solo il 6% di dipendenti con contratto scaduto, seguito da “Edilizia, legno e arredamento” e “Aziende di servizi”, con una percentuale pari al 15%. È grave che un settore in espansione, anche sul piano occupazionale come il “terziario e servizi” versi in questa condizione di debolezza sindacale.
Ci sono in questa situazione delle responsabilità dei sindacati confederali che, per esempio, hanno consentito al sindacalismo di base di prevalere nella logistica. Al cospetto di questa situazione parecchio precaria bisognerebbe ricordare ai sindacati che prima di estendere erga omnes i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, è il caso di rinnovarli. Anzi, è proprio il “buco” che riguarda il terziario e i servizi che può indurre le imprese a chiudere la partita erogando il salario orario minimo e basta.
La questione del rinnovo dei contratti collettivi nazionali è decisiva, non solo per gli aspetti normativi, ma soprattutto per le retribuzioni. È un tema che il Cnel deve affrontare. In proposito circolano due filoni di pensiero, sgangherati come “un tacon nel buso”, più frutto della disperazione che della razionalità, giacché è in vigore un numero forse eccessivo di accordi interconfederali che delineano le procedure e i criteri per il rinnovo dei contratti nazionali, la cui efficacia è discutibile, visti i risultati. Andando a ritroso è il caso di ricordare che il Protocollo storico del 1993 (il 23 luglio ricorre l’anniversario) prevedeva addirittura un percorso coordinato in modo da ridurre al minimo la vacanza tra un contratto e il suo rinnovo, con l’erogazione di una relativa indennità. Ora tranne che talune lodevoli eccezioni i tempi dei rinnovi si sono sbriciolati a partire dal ritardo con cui i sindacati presentano le loro piattaforme rivendicative.
Le due “scuole di pensiero” debole sono le seguenti: a) detassare gli aumenti stabiliti nei rinnovi (insieme alla detassazione del lavoro straordinario, per turni, ecc.); b) concedere i benefici fiscali e operativi soltanto alle aziende dei settori in regola con i rinnovi contrattuali; in sostanza laddove la legge parla di “contratti stipulati da organizzazioni comparativamente più rappresentative” si dovrebbe aggiungere più o meno “purché adempienti alle procedure di rinnovo”. A mio avviso, si tratta di alternative non solo inutili, ma con effetti controproducenti. Non sono le singole aziende a dover rispondere e rimediare alle eventuali inadempienze delle loro associazioni rappresentative, per cui non serve penalizzarle a meno che non le si consenta di rimediare sul piano aziendale, mandando così in frantumi il contratto nazionale di categoria. Nella gloriosa Prima Repubblica i Governi erano capaci di esercitare la funzione essenziale della mediazione. A questa pratica si riferiva quanto previsto dalla risoluzione approvata dalla Camera nel dicembre scorso di cui riportiamo di seguito gli indirizzi e gli impegni principali:
a) attivare percorsi interlocutori tra le parti non coinvolte nella contrattazione collettiva, con l’obiettivo di monitorare e comprendere, attraverso l’analisi puntuale dei dati, motivi e cause della non applicazione;
b) estendere l’efficacia dei contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentativi, avvalendosi dei dati emersi attraverso le indagini conoscitive preventivamente svolte a livello nazionale, alle categorie di lavoratori non comprese nella contrattazione nazionale;
c) avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale, che, soprattutto in certi ambiti, coinvolge un gran numero di lavoratori, alla luce della frequente aggiudicazione di gare che recano in loro seno il concetto della «migliore offerta economica»;
d) mettere in atto una serie di misure di competenza volte al contrasto dei cosiddetti contratti pirata in favore dell’applicazione più ampia dei contratti collettivi, con particolare riguardo alla contrattazione di secondo livello ed ai cosiddetti contratti di prossimità;
e) favorire l’apertura di un tavolo di confronto che assicuri il pieno coinvolgimento delle parti sociali e del mondo produttivo sul tema cruciale delle politiche finalizzate alla riduzione del costo del lavoro e all’abbattimento del cuneo fiscale, al fine di rilanciare lo sviluppo economico delle imprese, incrementare l’occupazione e la capacità di acquisto dei lavoratori
Avvalendosi di questo indirizzo politico, il Governo potrebbe compiere due mosse: 1) convocare le parti dei contratti scaduti, in particolare, nei settori del terziario e dei servizi riguardanti il maggior numero di lavoratori interessati e seguire direttamente il negoziato, magari arrivando in caso di necessità a una proposta da prendere o lasciare; 2) convocare le principali associazioni di imprese e confederazioni sindacali operanti nei settori in cui i contratti sono scaduti per promuovere un accordo quadro di acconto, in regime di una tantum (esente da prelievo fiscale) in cui sia prevista un’erogazione ragguagliata, almeno in parte, al divario dell’inflazione. In quest’ambito il Governo potrebbe indicare un termine entro il quale avviare o riprendere e concludere i negoziati, riservandosi un eventuale intervento propositivo che tenga conto delle posizioni a cui era arrivata la singola trattativa e dei punti che ostacolano maggiormente una conclusione positiva.
Quanto al salario minimo, si potrebbe iniziare una sperimentazione (non certo a 9 euro all’ora, ma a una cifra inferiore), limitata ai settori non coperti dalla contrattazione collettiva.
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