Nonostante le imprese fatichino a cercare i lavoratori di cui hanno bisogno, i salari in Italia perdono potere d'acquisto
Il paradosso italiano delle politiche salariali può essere sintetizzato dalla perdita del valore reale delle retribuzioni coincidente con una rilevante quota della domanda di lavoro da parte delle imprese che non trova lavoratori disponibili. Una condizione favorevole per la crescita dei salari superiore a quella dei prezzi al consumo e per l’aumento della quota del reddito prodotto destinata alle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
La svalutazione del potere di acquisto delle retribuzioni è stata particolarmente accentuata nel biennio 2022-23 per l’impatto della crescita dei prezzi dell’energia sull’offerta di beni e servizi e per il recupero tardivo operato dai rinnovi dei contratti collettivi di lavoro negli anni successivi. Il risultato finale è un differenziale medio finale di circa -8 punti rispetto al tasso di inflazione registrato negli ultimi 4 anni (stime Istat).
L’importo negativo è stato parzialmente compensato nell’importo dei salari netti dei lavoratori dipendenti grazie agli sgravi contributivi e fiscali introdotti dai Governi Draghi e Meloni per le retribuzioni lorde inferiori ai 35 mila euro. Secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il finanziamento di questi provvedimenti è costato circa 25 miliardi di euro. Un valore equivalente agli introiti fiscali dell’Erario dovuti all’impatto delle maggiori aliquote fiscali sulla crescita dei redditi nominali lordi superiori a tale cifra. Nel frattempo, la redditività delle imprese è tornata al di sopra dei livelli registrati nel 2019, l’anno che precede la pandemia Covid.
Ma la decrescita del valore reale delle retribuzioni in Italia, come segnalato dalle indagini dell’Ocse, è un fenomeno in corso da circa tre decenni per l’impatto di diversi fattori: la bassa produttività del capitale investito e del lavoro in una parte rilevante del sistema economico e, in particolare, dai comparti caratterizzati da una forte presenza di piccole e micro imprese; la forte concentrazione della popolazione lavorativa nelle qualifiche medio basse; l’incidenza dei rapporti di lavoro a termine e part-time che comprime la crescita dei salari di fatto; la concorrenza sleale generata dal lavoro sommerso.
Buona parte di questi fattori ha subito un particolare deterioramento nel corso degli anni a cavallo delle due grandi crisi economiche (2008/2020). Tutto ciò nonostante la mole crescente di risorse pubbliche messe in campo per sostenere i bassi redditi e per finanziare: 4 riforme degli ammortizzatori sociali per la carenza di lavoro; 4 provvedimenti legislativi per integrare i redditi delle famiglie in condizioni di povertà assoluta; 6 interventi con Leggi di bilancio, a partire dal bonus Renzi di 80 euro mensili del 2015, per sostenere con l’erogazione di contributi e sgravi fiscali le retribuzioni medio basse dei lavoratori dipendenti.
Provvedimenti, che si sono aggiunti alla miriade di prestazioni emergenziali e di bonus di varia natura erogati dallo Stato e dagli enti locali con l’ausilio delle dichiarazioni Isee (attualmente utilizzati da circa 12 milioni di famiglie e 31 milioni di persone).
La proposta di Legge di bilancio presentata al Parlamento ipotizza anche una tassazione agevolata (5%) per gli aumenti salariali derivanti dai rinnovi dei contratti collettivi del 2025/26 limitatamente ai salari inferiori ai 28 mila euro. Una proposta che manifesta evidenti problemi di equità rispetto alle imprese e ai lavoratori che hanno già rinnovato i contratti collettivi senza avere tali benefici.
L’intervento dello Stato nella redistribuzione primaria del reddito, per compensare i mancati adeguamenti delle retribuzioni da parte delle imprese, trasferendo i relativi oneri a carico dei contribuenti fiscali (a partire dalla quota rilevante dei lavoratori dipendenti che non beneficiano degli sgravi) snatura il ruolo della contrattazione collettiva, che rimane essenzialmente quello di remunerare in modo equo i lavoratori e il loro concorso alla generazione del reddito.
L’erogazione di bonus salariali, di sgravi contributivi e di detrazioni fiscali con l’utilizzo di soglie della retribuzione comporta l’esito di aumentare i salari netti delle basse categorie avvantaggiandole rispetto a quelle immediatamente superiori, alterando la remunerazione dei profili professionali definita dai contratti collettivi.
I riscontri empirici che emergono dalle indagini degli istituti di statistica nazionali e internazionali ci consentono di affermare che gli esiti delle politiche per il sostegno dei bassi redditi hanno permesso di mantenere sostanzialmente inalterati i livelli delle disuguaglianze interne nella distribuzione del reddito a discapito dei ceti produttivi, ma non hanno impedito la crescita del numero delle famiglie e delle persone povere.
Tutto ciò è facilmente riscontrabile anche per gli esiti della contrattazione collettiva e l’incremento dei divari salariali tra i contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle federazioni nazionali aderenti a Cgil, Cisl e Uil. I settori e i comparti di attività che faticano a tenere il passo sulla crescita dei salari contrattuali, quelli di fatto, e la tempistica dei rinnovi contrattuali sono quelli che sottoutilizzano: gli investimenti; le tecnologie; l’impiego e le competenze delle risorse umane disponibili.
Nell’attuale sistema della contrattazione collettiva, fondato sulla centralità dei contratti collettivi nazionali di lavoro per settori di attività, le dinamiche salariali risultano inevitabilmente condizionate dall’esigenza di rendere compatibili i costi dei rinnovi anche per le imprese meno produttive. Trascurano gli indicatori di produttività, redditività e di attrattività del mercato del lavoro che consentono di incentivare un migliore impiego delle risorse trasferendo gli esiti nella crescita dei salari e delle dinamiche professionali, con ricadute positive della crescita dell’economia.
La mancata riforma dell’attuale sistema della contrattazione per potenziare il decentramento verso le aziende e i territori è il frutto dell’ostilità di una parte rilevante delle associazioni datoriali e dei lavoratori che, non a caso, sono parte attiva nel rivendicare gli interventi dello Stato a sostegno dei rinnovi contrattuali.
Una rivendicazione motivata dalla presunta concorrenza sleale operata dai “contratti pirata” sottoscritti dalle organizzazioni datoriali e dei lavoratori poco rappresentative (applicati saltuariamente per meno del 3% dei lavoratori), che prevedono costi inferiori rispetto a quelli sottoscritti dalle principali Confederazioni datoriali con Cgil, Cisl e Uil che tutelano il 94% dei lavoratori dipendenti.
È un’esplicita manifestazione di impotenza che non offre grandi prospettive per il ruolo delle parti sociali nelle nostre politiche del lavoro.
Gli interventi citati non offrono risposte alle cause del declino delle retribuzioni e contribuiscono alla balcanizzazione ulteriore dei sistemi di prelievo fiscale e della contrattazione collettiva.
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