In Europa il salario minimo varia di Paese in Paese. In Italia non c’è ma potrebbe stimolare i giovani che non lo fanno a cercare lavoro

Da diversi mesi, il dibattito sul salario minimo in Italia occupa un posto di rilievo nel panorama politico ed economico. Come in tutte le questioni economiche, per poter maturare un’opinione sulla opportunità, ovvero sulle conseguenze connesse alla sua introduzione, occorre capire meglio di cosa si tratta. Il salario minimo può essere definito come la più bassa remunerazione che un datore di lavoro può elargire ai suoi dipendenti ai fini di garantire loro uno standard di vita dignitoso.

In un’ottica di comparazione internazionale, possiamo notare che le modalità di erogazione e regolazione del salario minimo sono estremamente diverse tra i vari paesi.

Anche limitandoci al contesto europeo, il meccanismo di funzionamento del salario minimo varia notevolmente da paese a paese e, talvolta, anche all’interno del medesimo paese, a livello regionale o da un settore economico ad un altro, Tuttavia, non tutti i paesi dell’Unione Europea hanno adottato il salario minimo. Italia, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia sono gli unici paesi dell’Unione che, ad oggi, non hanno accolto alcuna misura di salario minimo. Considerando i paesi europei non aderenti alla UE, ad essi si aggiungono, tra gli altri, Svizzera, Islanda e Norvegia.

Altri paesi, come Germania e Cipro, hanno introdotto il salario minimo solo recentemente, rispettivamente nel 2015, e nel 2023.

Che l’introduzione del salario minimo sia un tema caldo anche nel panorama internazionale lo testimonia anche la Direttiva n. 2022/2041 emanata del Parlamento europeo unitamente al Consiglio di Europa, nell’ottobre del 2022. Essa non prevede l’obbligo di adozione del salario minimo, ma invita tutti i paesi membri ad assumere misure capaci di garantire, per tutti i lavoratori, un livello di salario capace di garantire uno standard di vita dignitoso. La Direttiva, inoltre, sottolinea la necessità di adozione del salario minimo almeno per quei paesi il cui livello di contrattazione collettiva è inferiore all’80% e incoraggia quelli che lo hanno introdotto ad aggiornarlo periodicamente e tempestivamente in relazione al costo della vita e ad i livelli di produttività.

Per quanto concerne il livello di contrattazione collettiva, in Italia, esso è tra i più elevati rispetto agli altri paesi europei e sicuramente superiore alla quota dell’80% raccomandata dalla Direttiva della Commissione Europea. Tuttavia, come diversi studi hanno dimostrato, il ruolo e il peso dei sindacati in Italia è debole e, col tempo, è andato ancor più diminuendo. Come si evince dalla Figura 1, altri paesi come Belgio e Francia presentano, invece, un elevato livello di contrattazione collettiva e di salario.



In Italia, recentemente, il dibattito politico in tema di introduzione del salario minimo si è particolarmente riscaldato. Da un lato, infatti, le forze politiche di sinistra considerano il salario minimo un provvedimento necessario per ridurre il numero dei working poor, ovvero di color che, pur lavorando, hanno un reddito che li colloca comunque al di sotto della soglia di povertà. Come è possibile evincere dalla Figura 2, la quota di persone a rischio di povertà in Italia è tra le più alte a livello europeo.



Solo Romania, Lussemburgo e Spagna annoverano valori più elevati. Dall’altro lato, vi è invece la convinzione, suffragata dalla teoria economica classica, che l’introduzione del salario minimo, producendo un incremento “artificiale” (rispetto alle leggi di mercato) del salario oltre il livello di equilibrio, produrrebbe inevitabilmente una riduzione dei livelli occupazionali in quanto gli imprenditori troverebbero meno conveniente assumere personale. Ad essere maggiormente penalizzati, in base a questa teoria, sarebbero soprattutto i lavoratori poco qualificati e con scarsa esperienza lavorativa. La letteratura economica, però, è ben lontana dal convergere verso un’unica opinione e anche i numerosi studi empirici non hanno finora raggiunto un risultato unanime.

Le più recenti teorie economiche, ritengono che i mercati moderni siano caratterizzati da una situazione di monopsonio, in cui, cioè, i datori di lavoro hanno un elevato potere contrattuale che consente loro di fissare i salari ad un livello al di sotto di quello di equilibrio. In questo caso, l’introduzione del salario minimo produrrebbe come effetto semplicemente un aggiustamento capace di portare i salari più bassi al livello di equilibrio economico. Ciò, pertanto, ridurrebbe le forme di sotto-pagamento e sfruttamento e favorirebbe l’ingresso sul mercato del lavoro di un numero maggiore di persone, prevalentemente inattivi, per i quali la scelta tra lavorare o stare a casa, in corrispondenza della opportunità di un guadagno maggiore, li porterebbe a preferire la prima opzione. Una riduzione della quota di inattivi consentirebbe quindi di accrescere la produttività complessiva del paese. Ciò è di grande importanza, almeno per paesi come l’Italia, che da anni presentano elevati tassi di inattività, anche tra i giovani, e una stagnazione economica dovuta alla bassa produttività, scarsa crescita economica e tassi di fertilità tra i più bassi d’Europa, che riducono ancor di più la quota di popolazione attiva.



Il collettivo della popolazione su cui le teorie economiche sembrano divergere particolarmente in merito agli effetti dell’introduzione del salario minimo è quello dei giovani che si affacciano nel mondo del lavoro. In base alla teoria economica classica, coloro che sarebbero maggiormente svantaggiati dall’introduzione del salario minimo sarebbero proprio i giovani, in quanto privi di esperienza lavorativa e quindi maggiormente soggetti a licenziamenti o difficilmente selezionabili in caso di assunzioni. In base invece alla teoria del monopsonio dei mercati, l’introduzione del salario minimo avrebbe come principale effetto quello di incentivare una parte degli inattivi a fare ingresso nel mercato del lavoro.



Un recente studio presentato al Workshop di monitoraggio del salario minimo (dal titolo Minimum wage in changing labour markets), tenutosi a Berlino lo scorso novembre, richiesto su iniziativa della Commissione di monitoraggio del salario minimo tedesca (Mindestlohn Kommission), è stato finalizzato a verificare gli effetti dell’introduzione e del livello del salario minimo sui giovani NEET, ovvero i giovani che non studiano e non lavorano.

La Figura 3a mostra la relazione tra salario minimo e percentuale di giovani NEET per i paesi europei.



Come si può dedurre guardando la retta interpolante i punti, la relazione sembra indicare, seppure leggermente, una relazione diretta tra queste due variabili (all’aumentare del livello del salario minimo, aumenta anche il tasso di giovani NEET). Escludendo però i paesi che non hanno introdotto il salario minimo, ovvero concentrandoci soltanto sul livello del salario minimo, la relazione sembra invertirsi (Figura 3b), denotando pertanto una riduzione nella quota di giovani NEET al crescere del valore del salario minimo reale. Non avendo adottato il salario minimo, l’Italia è presente solo nella parte (a) della Figura e spicca per essere, tra i paesi europei che non ha uno schema di salario minimo, l’unico con una percentuale di giovani NEET molto elevata.

Ciò induce a pensare che, tra i paesi senza il salario minimo, l’Italia si caratterizzi per essere quello che maggiormente potrebbe beneficiare di questa misura, inducendo più giovani inattivi a entrare nel mondo del lavoro. Tale ipotesi assume grande rilevanza, se si pensa alle recenti tendenze dei giovani, documentate da diversi studi, relative alla loro minore propensione ad accettare sacrifici per il lavoro. Sebbene infatti non siano ancora disponibili dati statistici su larga scala, diverse ricerche hanno mostrato un aumento dei casi di disturbi di ansia tra i giovani, che li inducono con maggiore facilità a rassegnare le dimissioni in caso di stress da lavoro e a limitare il tempo dedicato al lavoro per dare maggiore spazio al tempo libero. In una tale situazione, è immaginabile che questi giovani siano meno disposti, rispetto alle generazioni precedenti, ad accettare condizioni lavorative caratterizzate da una retribuzione al di sotto del valore di mercato.

Lo studio in oggetto, nuovo nel suo genere, in quanto direttamente collegato ai giovani NEET, pone in evidenza, quando ci si limita ad analizzare solo i paesi che hanno introdotto il salario minimo, diversi risultati interessanti. Al fine di identificare l’effetto del salario minimo, si è proceduto innanzitutto a scindere la categoria molto eterogenea di giovani NEET nelle sue componenti. Sono stati infatti separatamente analizzati i giovani disoccupati ed i giovani inattivi, andando anche a distinguere rispetto alle diverse tipologie di disoccupazione (di breve e medio periodo) e cause di inattività (principalmente, scoraggiati e care-givers). Lo studio ha esaminato gli anni dal 2012 al 2023, utilizzando modelli panel che consentono di controllare anche per altri fattori determinanti non inclusi nello studio, ma che possono spiegare le sostanziali differenze tra i paesi europei, garantendo, pertanto, la robustezza e correttezza dell’analisi.

Lo studio ha dimostrato che valori più elevati del salario minimo producono una riduzione significativa della parte dei giovani NEET che si dichiarano scoraggiati, ovvero di coloro che dichiarano di non stare cercando lavoro, ma solo in quanto ritengono che non vi sia lavoro per loro. In altre parole, lo studio conferma che un livello più alto del salario minimo incoraggia i giovani che hanno smesso o mai iniziato a cercare lavoro ad intraprendere azioni attive concrete per la ricerca di lavoro.

Per contro, lo studio ha rivelato un incremento significativo di giovani inattivi per motivi di cura (i cosiddetti care-givers) in corrispondenza di livelli più elevati del salario minimo. Ad incidere su questo risultato vi è, probabilmente, la tendenza di alcune giovani madri a dedicarsi maggiormente alla cura dei figli quando è possibile contare un livello salariale del partner più elevato. La relazione tra i livelli di salario minimo e la percentuale di giovani disoccupati è risultata invece inversa, ma non significativa a livello statistico.

In conclusione, possiamo dire che l’introduzione del salario minimo in Italia porterebbe come conseguenza, da una parte, una riduzione della quota dei working poor, ma, d’altra parte, provocherebbe anche un incremento dei salari più elevati, per effetto dell’adattamento delle nuove condizioni del mercato salariale. Ciò potrebbe stimolare più giovani a cercare lavoro, ma anche a ridurre, almeno parzialmente, il fenomeno della fuga dei cervelli e, più in generale, la migrazione dei giovani italiani all’estero, che vede tra le principali motivazioni proprio le maggiori prospettive di guadagno, in un quadro demografico che è già inevitabilmente compromesso.

 



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