Senza una riforma dei contratti, il salario minimo produce più rischi che benefici. Lo sostiene Silvia Vannutelli della Northwestern University e Nber, che sul Foglio spiega come una soglia a 9 euro e i contratti nazionali rigidi rappresentino un mix esplosivo, suggerendo di usare la Germania come modello. Uno dei problemi dei salari in Italia è che reagiscono in ritardo agli aumenti dei prezzi. Ciò è dovuto a due fattori. La durata delle rinegoziazioni: ogni tre anni, mentre in Germania avviene ogni due, in Francia ogni anno e mezzo. Inoltre, c’è anche una questione di livello della contrattazione che è unico in Italia, invece all’estero (Germania, Grecia, Portogallo e Spagna) è altamente decentrato.
Di conseguenza, i salari non rispondono agli choc locali differenziati e si creano disparità orizzontali tra persone che svolgono gli stessi impieghi, ma in città diverse, perché il costo della vita è differente da Milano a Catania. Ad esempio, nel capoluogo lombardo è più alto del 30%, escludendo gli affitti da questo discorso. Se invece vengono considerati, la differenza sale a oltre il 40%. Queste sono premesse importanti quando ci si approccia al tema del salario minimo. Un punto cruciale è stabilire il livello adeguato del salario minimo. Considerando «le ampie differenze di produttività e costo della vita tra aree geografiche, sembra difficile che un singolo livello salariale per tutto il territorio nazionale possa essere la scelta giusta», osserva Vannutelli.
SALARIO MINIMO, LE TRE OPZIONI E IL MODELLO TEDESCO
Il salario minimo a 9 euro l’ora avrebbe un’incidenza di oltre il doppio al sud rispetto al nord, secondo i dati Istat. Non perché i salari al sud sono più bassi, ma per l’alto tasso di disoccupazione, sottoccupazione e lavoro informale al meridione. «Numerosi studi mostrano infatti come, a seguito delle crisi economiche, il Mezzogiorno abbia reagito con una consistente contrazione dell’occupazionee delle ore lavorate. L’economia meridionale si è mostrata meno resiliente agli choc economici anche a causa della rigidità e impossibilità di aggiustamento dei salari locali a causa della contrattazione nazionale», scrive Silvia Vannutelli sul Foglio. L’imposizione di un salario minimo unico nazionale di livello troppo alto, in particolare al sud, rischia quindi «di spingere ancora di più fuori dal mercato del lavoro formale proprio quei lavoratori che l’introduzione stessa del salario minimo mira a proteggere». Il modello alternativo è quello tedesco.
Le opzioni sono tre. La prima prevede di adottare un unico salario minimo nazionale prendendo a riferimento le condizioni dei lavoratori in mercati del lavoro più svantaggiati del sud, e poi eventualmente consentire potenzialmente alle regioni di adottare salari minimi locali più alti, come avviene negli Usa. Ma così si adotterebbe un salario minimo di 6-7 euro l’ora. Altrimenti, bisogna adottare per legge salari minimi già differenziati a seconda delle zone geografiche. La terza opzione, quella più fattibile politicamente secondo Vannutelli, è un salario minimo parametrato sulla media nazionale, ma lasciando la possibilità di esentare aree economicamente svantaggiate, aziende o settori in crisi, dall’applicazione del salario minimo. Proprio quest’ultima è la scelta della Germania. Infine, sarebbe importante introdurre parallelamente meccanismi di forte decontribuzione per aziende che assumono lavoratori più deboli, come avviene invece in Francia. Così si incentiverebbe l’emersione dal lavoro nero.