La Basilica di Santa Sofia di Istanbul non è soltanto un edificio di culto cristiano che la caduta di Costantinopoli del 1453 ha messo nelle mani dei Turchi, ma – come intuì Ataturk nel 1935 quando la “sconsacrò” da Moschea – è un simbolo, forse il simbolo più eloquente di un conflitto fra due fedi, il cristianesimo e l’islam, che hanno preteso per secoli di esprimere la loro forza attraverso l’esercizio di un potere declinato come possesso, come dominio, come violenza. Il fatto che essa torni a configurarsi come moschea non è dunque nient’altro che il riaffermarsi sul palcoscenico della storia di un’esperienza religiosa che ha bisogno di dominare, di occupare spazi e scrivere leggi per sentirsi viva.
È da questa riduzione della religiosità che si può comprendere il dolore espresso con discrezione da papa Francesco all’Angelus di domenica: Bergoglio certamente non è turbato dal fatto di “perdere una chiesa”, quanto dal manifestarsi – in quel gesto di tracotanza – di un’esperienza della fede ridotta che ha ancora bisogno di “cose”, di dire “questo è mio” per affermare la propria identità e il proprio valore nella storia.
Un tempo un atto del genere avrebbe provocato l’insorgere in occidente di un movimento crociato, sarebbe stato l’inizio di una guerra; oggi assistiamo a un paradosso non di poco conto: i potenziali crociati sono sul divano a guidare la guerra dalla loro tastiera, esattamente come un gamer mostra il proprio valore agli adolescenti nelle dirette su Twich, mentre tutti gli altri o ignorano quanto sta accadendo o lo usano per erudite dissertazioni radical-chic incapaci di smuovere anche una virgola del cuore dell’uomo.
In tutto questo si erge come sempre il Papa, l’uomo vestito di bianco, che, come fosse un accidente fuori copione, racconta a chi lo ascolta in piazza San Pietro, di sentire dolore, similmente a quando un fratello prende atto della decisione terribile di un altro fratello. Dolore, non condanna, analisi, riprovazione, esortazione a reagire: dolore, sentimento poco diffuso che racconta il profondo dispiacere per un desiderio e un’umanità che, attraverso le loro scelte, diventano più piccole, si riducono, fino quasi a estinguersi. La fede o è un’esperienza di ultima apertura all’Infinito che pacifica il cuore, una familiarità col Mistero che ci toglie dalla necessità di pretendere e di vincere per esistere, oppure è una forma ben organizzata di violenza, l’estremo tentativo dell’uomo di imporsi sugli altri uomini, calpestando l’umano in nome di un divino forgiato a propria immagine.
Francesco questo lo sa bene e, quando porta la sua mente, ai pennacchi della Chiesa dedicata al Logos di Dio e alla Sua Misericordia, non può che avvertire lo strappo di chi è consapevole che, su una strada così accidentata, l’umanità potrà trovare solo umiliazione, mortificazione, solitudine. L’esatto opposto per cui, in Occidente come in Oriente, i servi di Cristo hanno deciso di donare tutto e di giocarsi la vita.