Gli Usa sono dinanzi a un tornante decisivo della loro storia di impero capitalistico talassocratico. Lo sono per diversi motivi.
Il primo è che l’accumulazione allargata del capitale ha raggiunto da circa un cinquantennio tutto l’intero pianeta e per questo il meccanismo di riproduzione non può ormai che svilupparsi per due vie molto difficili da percorrere: la rendita finanziaria e il plusvalore assoluto riattualizzato da forme di rapporti di produzione precapitalistici, come i lavori a tempo neo-schiavistici che vediamo sulle nostre strade. La caduta tendenziale del tasso di profitto che perseguita dal secondo dopoguerra le grandi corporations ha ingenerato quell’eccezionalismo nordamericano fondato su quel portentoso sbilanciamento del commercio estero Usa, provocato dal formidabile tasso di importazione a fronte di un drammaticamente basso tasso di esportazione.
La deregolamentazione finanziaria clintoniano-blairiana degli anni Novanta del Novecento – che assunse il nome di new economy e di globalizzazione nel contesto del crollo dell’Urss e della contestuale formazione di quel polo energetico mondiale del Grande Medio Oriente che doveva garantire il dominio anglosferico del mondo – altro non è stata che l’anticipazione dell’oggi. La fine della crescita cinese con la contestuale emersione dell’India riclassifica ora profondamente il conflitto di potenza mondiale. E questo accade contestualmente al decadere rapido e irreversibile della tecnocrazia dell’Ue, il cui dominio di fatto senza Costituzione e senza politica (sostituita dalla governance) ha accentuato le divaricazioni economiche e sociali europeo-continentali, con la rinascita dei nazionalismi e dei populismi jingoisti (ossia fondati sul nazionalismo etnico anti-migratorio delle classi operaie e delle classi medio-basse).
Le relazioni internazionali sono il sismografo sensibilissimo di questa implosione dell’ordine internazionale che genera la proliferazione delle medie e piccole potenze, con il crollo del classico reticolo delle antichissime regole diplomatiche. Esse subiscono da questo sregolamento un’erosione che è stata tanto rapida quanto distruttiva. Le guerre locali eterocomandate dai poteri revisionisti anti-Usa russo-turco-persiani sono la conseguenza e insieme la causa di questa disgregazione diplomatica.
Come ha ricordato recentemente Mauro Calise, è proprio questa situazione che aumenta la leaderizzazione delle cuspidi del potere capitalistico mondiale. La vittoria di Trump non è che l’inevitabile conseguenza di questa situazione che massimizza il potere personale dei decisori… tanto più se presidenziali. È questa massimizzazione dei poteri che viene sempre più ampliata per l’effetto dell’ultimo grande ciclo di innovazioni tecnologiche digito-spaziali che consegnano alle nuove corporations non classicamente manifatturiere il dominio del mondo.
Il digitale e la corsa del capitalismo di guerra che muove alla conquista dello spazio consegna alla poliarchia nordamericana non solo il destino degli Usa ma anche quello del mondo, come rende evidente in modo plastico il rapporto di potere ermafroditico tra Trump e Musk.
Tuttavia – come dimostrano gli eventi recentissimi nella martoriata terra di Israele sconvolta dal genocidio islamico fondamentalista e dall’esistenziale resistenza ebraica – anche questo nuovo potere pare non essere inarrestabile, laddove la politica continua a operare con sistemi di solidarietà e movimenti collettivi, come dimostrerà la difficile implementazione di qualsiasi accordo in quelle terre.
In ogni caso, quel revisionismo non si manifesta mai come un potere a somma zero. Per questo ciò che succederà nelle martoriate terre ebraico-islamiche altro non è che l’anticipazione di un futuro completamente nuovo.
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